Lo scorso giugno ha fatto scalpore la decisione del Consiglio Archeologico Centrale (KAS) ellenico che avrebbe rifiutato due milioni di euro per restaurare l’Acropoli di Atene, più altri cinquanta milioni per i diritti televisivi e trenta milioni per la pubblicità di Gucci per una sfilata con oltre trecento ospiti. Nessuna sfilata di Gucci quindi tra le rovine dell’ Acropoli ateniese: “Il carattere culturale unico dei monumenti dell’Acropoli non si accorda con questo tipo di evento”, è la risposta che si legge nel comunicato diffuso dal Kas, che ha anche ricordato come il sito sia patrimonio mondiale dell’Unesco, il tutto con l’avvallo del ministro della Cultura Lydia Koniordou, che ha spiegato: “È un monumento importante e un simbolo che i greci devono proteggere”.
La notizia ha fatto il giro del mondo polarizzando i giudizi tra favorevoli che hanno visto nell’iniziativa una opportunità di promozione e i contrari che hanno gridato alla mercificazione di valori che a loro giudizio mai e in nessuna forma dovrebbero legarsi al mercato. E quando il mercato incontra la creatività, arriva puntualissimo il terzo incomodo a funestare le più nobili intenzioni: il marketing. E in nome del marketing la cultura, e nello specifico di questa analisi il patrimonio storico culturale, entra a pieno titolo (da leggersi in senso letterale: nove colonne sulle prime pagine dei nostri principali quotidiani) nello storytelling (sic!) politico e istituzionale perché finalmente la cultura ha invitato tutti al suo banchetto. E dove c’è la domanda, si sa, arriva anche l’offerta. È il mercato, bellezza.
E infatti si era portato avanti il neoministro di allora Giancarlo Galan, quando nel 2011 dichiarò che si sarebbe affidato ai privati per il restauro di una Pompei sempre più dissestata, priva di alcun intervento di salvaguardia, diventata simbolo dello scempio culturale in cui versava il nostro Paese. Una dichiarazione ufficiale annunciava la sponsorizzazione: “È indispensabile una manutenzione programmata, la manutenzione ordinaria non basta. Penso di coinvolgere studiosi, università, i tecnici Mibac che sono bravissimi, ma serve anche l’apporto dei privati. Discreto, utile a entrambi, ma senza demonizzazioni, i privati servono”. Venne calcolata una spesa di circa centocinque milioni di euro per poter procedere con un piano d’intervento ordinario e straordinario, e l’invito del ministro viene raccolto dal Gruppo francese Epadesa che promise un contributo di cinque-dieci milioni all’anno. Ma il 12 marzo 2012 una lettera annunciava alle nostre istituzioni che Pompei sarebbe rimasta senza sponsor, poiché il Gruppo Francese guidato da Joelle Chauvin, allora presidente del Gruppo Assicurativo Aviva, rinunciava a questa nobile forma di mecenatismo: “Nel nostro paese, il periodo attuale non è il migliore per intraprendere degli interventi di sponsorizzazione. Penso alle scadenze politiche che è bene rispettare e alla crisi economica che ci colpisce”. Difficile infatti giustificare un così importante impegno oltre le Alpi per una realtà francese e così vicina alle proprie istituzioni, così siamo rimasti soli a difendere i nostri scavi le cui sorti, ahimè, sembrano ancora in balia delle intemperie e dell’indifferenza – o impotenza – istituzionale.
Ma questa cosa della sponsorizzazione privata sulla cultura deve aver solleticato qualcuno se pochissimo qualche tempo dopo, nel gennaio del 2014, venne annunciato un progetto di finanziamento sostenuto niente poco di meno che da Coca Cola per il restauro delle rovine di Roma nell’area che va dai Fori Imperiali al Colosseo, fino all’Appia Antica. Al ritorno dall’incontro di Davos infatti, il nuovo sindaco della città di Roma, allora era Ignazio Marino, incassava la promessa di Muhtar Kent, chairman e Ceo della multinazionale di Atlanta, il quale garantì, questa volta sì, il suo intervento per creare una fondazione dedicata alla protezione dell’archeologia romana: “un patrimonio che non è solo dei romani, ma di tutta l’umanità, una testimonianza dell’origine della civiltà”.
Certo che per Roma è tutto più facile: il fascino della città eterna aveva già sedotto Diego Della Valle che a gennaio 2011 si aggiudicò un accordo di restauro per il più importante monumento della città, icona di Roma e della stessa Italia, il Colosseo. Il patron della Tod’s avrebbe accantonato ben venticinque milioni di euro per consolidare e illuminare l’anfiteatro e secondo un articolo pubblicato dall’Espresso l’8 agosto 2013 “In cambio, oltre alla presenza del marchio sulle impalcature (anche se ‘non in modo invasivo’), Della Valle potrà ‘promuovere e pubblicizzare a livello nazionale e internazionale, il restauro del Colosseo, anche quale simbolo del patrimonio artistico italiano nel mondo’.” A quanto sembra l’azione di Della Valle deve aver ispirato altri moderni mecenati dei nostri giorni, visto che nello stesso articolo viene riportata la notizia della sponsorizzazione da parte di Brunello Cucinelli, brand prestigioso nel mondo della moda e della produzione di raffinatissima maglieria, che si è impegnato a restaurare la sistemazione della Porta Etrusca della sua Perugia con una donazione di un milione e trecentomila euro, mentre il buon Renzo Rosso di Diesel avrebbe investito ben cinquemilioniecinquecentomila euro per il Ponte di Rialto a Venezia.
Nella lettura di tutte queste notizie colpisce il riferimento alla presenza del brand su impalcature, ponteggi e cantieri dei restauri. C’è sempre infatti, un riferimento alla dimensione del logo, alla discrezione della presenza del marchio, un’attenzione particolare e una sensibilità nei confronti di marche che finanziano restauri importanti senza volere (o potere) strumentalizzare in chiave pubblicitaria il proprio supporto ai beni culturali del Paese.
Si potrà obiettare che il mondo della moda vive di pubbliche relazioni e operazioni di “publicity”, ma qui non ci troviamo di fronte alla classica donazione di solidarietà culturale, qui, Coca Cola a parte, ci sono i protagonisti dello stile italiano che decidono di prendere posizione con budget enormi per la salvaguardia del nostro patrimonio artistico in difficoltà. Forse anche loro si sono allarmati quando hanno letto dei crolli sempre più frequenti, della mancanza di fondi per il risanamento delle principali opere artistiche del Paese e forse è possibile leggere in questo senso anche quello che molte imprese della moda e del lusso stanno facendo per il nostro patrimonio storico e architettonico, associando i propri valori alla salvaguardia dei nostri più importanti monumenti. In fondo non c’è un modo più potente per dire “made in Italy”, se non attraverso la sensazionalità del restauro più impegnativo e costoso del mondo come appunto quello del nostro Colosseo appena conclusosi con un investimento pari a venticinque milioni di euro.
E se sei un imprenditore che vuole restituire al territorio e alla collettività fai come Sandro Veronesi, il fondatore di Calzedonia, che si è avventurato in un discusso progetto per la copertura dell’Arena di Verona, investendo dapprima centomila euro per il concorso di idee e poi accantonando dai nove ai tredici milioni di euro per la sua eventuale realizzazione. Oppure il solito Cucinelli che dopo aver costruito una storia aziendale esemplare per l’attenzione alla collettività e al territorio che lo ospita, ha annunciato che, oltre a restaurare il Monastero di San Benedetto di Norcia distrutto dal terremoto del 26 ottobre 2016, si impegnerà per restaurare anche la Torre Civica.
Renzo Rosso, Della Valle, Cucinelli e i loro ricchi colleghi hanno scoperto che il mecenatismo culturale può contribuire a innalzare la reputazione di marca, con investimenti che salvano i nostri monumenti, purché in nome della tutela culturale non si chiuda l’accesso a Ponte Vecchio per una serata intera come è successo a Firenze durante una cena di gala ha ospitato i vip danarosi invitati da Ferrari. Che, per carità, anche lei è un pezzo della nostra identità, ma è sospetta la collusione tra marketing e cultura, quando questa viene cannibalizzata da dinamiche che non le appartengono, o non dovrebbero appartenerle. Il confine è sottilissimo: da una parte c’è la bontà dell’appello di qualche anno fa lanciato dal Comune di Milano con un post sulla pagina Facebook in cui Palazzo Marino invitava le aziende ad “adottare un’opera d’arte”, per permettere alle istituzioni milanesi di pagare mostre e stagioni teatrali. Dall’altra non aiuta nessuno usare l’Ara Pacis come un improbabile autosalone per il lancio di un nuovo modello automobilistico e non si può che concordare con Giulia Maria Mozzoni Crespi, fondatrice del Fai, che afferma sgomenta di essersi trovata di fronte a uno “scempio diseducativo” durante la visita al museo con inclusa la supercar in esposizione.
I creativi hanno già i loro bravi (e gravi) problemi a fare in modo che la pubblicità torni a essere accettata e benvoluta, fanno tutti uno sforzo per non “prostituire le nostre opere d’arte”, per dirla con le parole del direttore degli Uffizi, Antonio Natali che in un’intervista sull’(ab)uso dei monumenti a fini pubblicitari ha dichiarato: “Bisogna considerare tutte le opere d’arte, siano esse figurative o di architettura, come testi poetici. Chi prenderebbe un canto di Dante per fare pubblicità a un motorino? Con le opere d’arte o di architettura succede perché non vengono considerate opere poetiche, ma feticci del consumismo”. E siccome chi si occupa di marketing e comunicazione è da sempre vicino alle dinamiche del consumo, è arrivato il momento d’imporre una nuova narrazione alle marche che vogliono avvicinare il tema culturale. Per proteggerne la solennità, per intervenire senza esibire, per favorire la scolarizzazione dove questa non è possibile e permettere ai più giovani di conoscere lo straordinario patrimonio artistico e culturale distribuito in ogni angolo del pianeta.
Per noi che siamo in Italia tutto questo è molto più semplice, perché abbiamo il privilegio di abitare il Paese più ricco del mondo in questo senso, con un potenziale enorme nel campo del turismo culturale che anno dopo anno continua a incrementare la propria domanda. La situazione è talmente drammatica che ogni impresa, piccola o grande che sia, può scegliere e definire il proprio territorio narrativo all’interno di uno scenario culturale così disastroso. Non è colpa di nessuno, la crisi ha messo in ginocchio anche le istituzioni ed evidentemente la cultura non è ancora considerata una priorità all’interno delle nostre agende politiche. Quindi dobbiamo affidarci alla libera iniziativa di chi fa mercato e che oggi può agire in comunicazione impattando sulla collettività, scegliendo di proteggere un’opera d’arte, adottando un museo, sponsorizzando un istituto o una gita scolastica.
Sarà meglio permettere ai nostri ragazzi di visitare uno scavo archeologico che ha smesso di crollare o aspettarli sul marciapiede alla fine delle lezioni, per fargli provare la nuova merendina con il gadget made in china e il buono sconto che nel tragitto da scuola a casa finirà dentro il primo cestino della spazzatura?
Sarà per questo che i consumatori sembrano premiare quelle scelte che mettono al centro delle iniziative promozionali e pubblicitarie la cultura. Soprattutto verso l’estero dove, secondo una ricerca di Symbola di qualche anno fa, emergeva che il mercato riconosce ai prodotti italiani un plusvalore del 20% legato proprio a quell’immaginario di storia, arte, cultura in genere che si riverbera appunto sui beni di consumo firmati dal Made in Italy. Oggi abbiamo la possibilità appunto di capitalizzare questo enorme patrimonio, il mercato ci dà ragione, altrimenti non si spiega l’investimento di Google che ha appena rilasciato (Maggio 2017) una piattaforma digitale e interattiva per riproporre il Grand Tour di Stendhal nel nostro Paese in chiave digitale.
Il vero oggetto del contendere è legato solo e soltanto alla sensibilità di chi investe. Alle marche spetta la responsabilità di non mercificare il proprio intervento e in questo senso un esempio di comunicazione intelligente è quello che da più di tre anni è presente sulle nostre autostrade, arrivato appunto da Società Autostrade in collaborazione con il Touring Club Italiano: lungo l’intera rete del Paese sono stati segnalati alcuni punti di particolare interesse turistico, ma poco conosciuti. Il viaggiatore in transito deve solo mettere la freccia e uscire seguendo le segnalazioni che lo porteranno verso un’area di servizio con installazioni che raccontano la località segnalata, consentendo all’automobilista di valutare l’affascinante fuoriprogramma, lasciandosi portare alla scoperta di località meno battute, ma con un grande valore artistico, culturale e/o naturale. Senza itinerari preconfezionati, gps, rassicuranti recensioni online e i consigli degli amici di Facebook. Solo qualche poster della pubblicità a ricordarci che siamo in un Paese Meraviglioso e che serve aver voglia di una piccola deviazione per scoprirne una delle tante meraviglie. È così difficile immaginare nuove storie come questa, anziché usare il nostro patrimonio culturale come bancomat per la reputazione del brand?