Le tecnologie digitali hanno ormai fatto breccia anche nel settore culturale ma restano ancora ampi spazi di sperimentazione e di applicazione. Le esperienze in corso dimostrano quali benefici possono essere apportati alla gestione e valorizzazione del patrimonio culturale da un utilizzo mirato del digitale al fine di migliorare la qualità dei servizi e ampliare la platea di fruitori. Sebbene si registrino resistenze e inerzie diffuse, la sensazione è che la tendenza alla digitalizzazione sia ormai, di fatto, una realtà.

Una descrizione sintetica delle esperienze di digital transformation nel settore culturale necessita di alcune note preliminari per meglio inquadrare il fenomeno in riferimento al contesto nazionale. Anche nel caso del variegato “comparto” della cultura e della creatività sono molteplici i fattori che limitano il dispiegamento delle potenzialità insite nell’utilizzo delle tecnologie digitali, ma non è questa la sede per affrontarli15. La diffusione di nuove tecnologie digitali, tuttavia, ha ormai raggiunto una dimensione critica tale da non rendere più così impensabile la loro prossima diffusione anche nelle “enclave” più chiuse e impermeabili alle novità. E trattandosi di un fenomeno globale, poco importa che a realizzare e mettere sul mercato prodotti e servizi digitali siano aziende italiane o di altri Paesi, perché tramite internet essi diventano immediatamente disponibili anche per il più sperduto dei musei e la più piccola delle associazioni culturali. Già oggi, per esempio, un museo può accedere a strumenti dedicati per la pianificazione strategica attraverso la piattaforma newyorkese Travelsee o individuare la miglior soluzione per promuovere la collezione digitalizzata, utilizzando l’applicazione Artigio, ideata e prodotta in Polonia. Nubart (Spagna) permette di scaricarsi l’audioguida del museo direttamente sul proprio smartphone mentre, con Museopic (Francia), basta puntare il telefono cellulare sull’opera d’arte per visualizzare contenuti speciali; Useeum (Germania) consente di combinare le informazioni sulle collezioni per inventare nuove storie con le quali raccontare le opere esposte. La tecnologia digitale arriva a toccare anche ambiti per i quali era difficile pensare un’applicazione diffusa: l’Intelligenza Artificiale, per esempio, inizia a farsi strada attraverso interessanti esperienze, ancora Cultura pilota, in processi di rigenerazione urbana — come per il progetto Iaquos nel quartiere romano di Torpignattara — o nella valorizzazione dei big data relativi al patrimonio culturale per consentirne la fruizione anche da parte di pubblici non specialistici, come nel caso del Polo del 900 con il progetto Smart Archive Search.

Che si pensi di trovarsi nel mezzo di una epocale rivoluzione culturale o che si mantenga una visione più distaccata interpretando la disponibilità di tali dispositivi solo come un’utile opportunità di miglioramento della strumentazione tradizionale, restano evidenti le potenzialità e i margini di crescita che risiedono nell’incontro/confronto tra cultural heritage e digital transformation. Da una parte, il patrimonio culturale rappresenta un bacino pressoché inesauribile di contenuti, idee, informazioni, spunti e riflessioni in cerca di un pubblico disponibile a riceverle e utilizzarle; dall’altra, un insieme di tecnologie in perenne e rapida evoluzione è alla costante ricerca di “contenuti” da elaborare e da veicolare a platee sterminate di utenti: basti ricordare i 2,2 mld di utenti di Facebook e i 1,9 di Youtube ma, restando al settore culturale, i 4.4 mln di download registrati per l’applicazione di gaming “Father and Son” recentemente prodotta dal Museo Nazionale Archeologico di Napoli. Non proprio risultati di secondaria importanza per un patrimonio culturale che molto spesso, malgrado i significativi investimenti realizzati in anni recenti per valorizzare i beni culturali, incontra significative difficoltà a intercettare pubblici diversi da quelli già acquisiti. Da una parte, quindi, un bacino pressoché inesauribile di “contenuti” che sono alla ricerca di strumenti capaci di dare loro voce e appeal agli occhi dei potenziali fruitori mai raggiunti attraverso i sistemi tradizionali di valorizzazione; dall’altra, troviamo tecnologie digitali che non si limitano a comunicare ma “entrano” direttamente nella vita delle persone e che necessitano però di contenuti e di informazioni da veicolare, interconnettere e combinare. Si tratta, con tutta evidenza di un fenomeno complesso, di un matrimonio ideale sulla carta ma ancora ben lontano dal considerarsi consumato e che deve trovare in politiche nazionali ed europee (non sporadiche e locali), il contesto indispensabile per orientare e sviluppare appieno le proprie potenzialità, anche in termini di ricadute economiche ed occupazionali.

Qualcosa si muove, tuttavia, anche nel settore culturale, seppur ancora a macchia di leopardo: esperienze interessanti che consentono di guardare al futuro con un certo ottimismo, sia per i risultati ottenuti, sia perché nate dal lavoro e dalla scommessa di giovani start-up e di imprese culturali che combinano competenze tecniche molto verticali con una sempre più precisa conoscenza delle specifiche meccaniche che regolano l’eterogeneo mondo della cultura.

Un primo ambito di penetrazione delle tecnologie digitali riguarda il miglioramento dei processi organizzativi, della programmazione e della pianificazione interna nelle istituzioni culturali complesse (musei, teatri, etc.) per semplificare e rendere più efficiente il lavoro dietro le quinte. Non si tratta, in questo caso, dei tradizionali sistemi gestionali ma di soluzioni tecnologiche che permettono non solo di integrare i servizi (dalla biglietteria alla gestione delle informazioni turistiche e degli orari dei trasporti pubblici per arrivare al museo) ma, in alcuni casi, di alzare l’asticella puntando, ad esempio, a creare veri e propri digital workplace, spazi virtuali in cui i musei sono liberi di avviare collaborazioni con altre istituzioni. In questo ambito opera, per esempio, Promemoria per la digitalizzazione e valorizzazione degli archivi storici e Comwork, giovane impresa culturale nata nel 2016 e incubata all’interno del programma Innovazione Culturale di Fondazione Cariplo, che fornisce servizi ad hoc per la gestione e digitalizzazione dei dati per singoli musei e che, al contempo, ha sviluppato una piattaforma in cui i musei che utilizzano i suoi servizi possono studiare e confrontare le loro collezioni, organizzare mostre virtuali e interagire con il loro pubblico.

Un secondo ambito in cui le tecnologie digitali stanno giocando un ruolo sempre più importante all’interno del settore culturale riguarda la possibilità di saltare le intermediazioni tradizionali e mettere il pubblico in contatto diretto con le informazioni. Ormai si contano migliaia di piattaforme che permettono alle persone di scoprire e mantenersi aggiornati direttamente dal proprio smartphone sulle attività culturali, turistiche e di svago nella propria città o nelle località di visita. Anche qui, però, non mancano le esperienze dedicate al patrimonio culturale, come nel caso di Musement e Atlasfor. La prima, una app prodotta dall’omonima impresa culturale che offre la possibilità di pianificare e acquistare i biglietti per musei e attrazioni, eventi temporanei, tour guidati, esperienze esclusive e attività gratuite, avvalendosi di suggerimenti e consigli di esperti locali, direttamente dal proprio telefono; la seconda, un atlante multimediale, interattivo e collaborativo prodotto dall’Associazione LandscapeFor per la divulgazione del patrimonio culturale, artistico e ambientale italiano.

La trasformazione digitale si sta allargando a macchia d’olio anche in altri ambiti della cultura e della creatività. È il caso, ad esempio, dell’arte contemporanea e, in generale, delle produzioni creative di valore artistico, meno legate alla produzione industriale e più vicine alla logica artigianale del pezzo unico (o della serie limitata). Seppur ancora a fatica, gradualmente si sta introducendo in tali settori l’utilizzo di servizi di certificazione e protezione basati su tecnologie blockchain che rendono più sicura e garantita, la compravendita on line degli oggetti, permettendo a un pubblico non specializzato di assicurarsi un’opera d’arte, per esempio di un artista emergente, senza dover passare necessariamente attraverso una galleria d’arte e avendo, al contempo, l’assicurazione di monitorare le oscillazioni del valore dell’oggetto acquistato. In questa direzione si può citare le esperienze di Tutelio che offre servizi con tecnologie blockchain a supporto di creativi e artisti, tutelando le produzioni in 10 settori di riferimento, dall’arte al fashion, dalla fotografia al design, dall’entertainment alla scrittura.

L’ambito su cui, però, l’introduzione delle più recenti tecnologie ha registrato la maggior diffusione ed eco mediatica è certamente quello relativo al miglioramento della fruizione dei beni culturali e dell’arricchimento dell’esperienza di visita. In questo ambito le sacche di “resistenza culturale” non sono poche. Come ben emerge dalla ricerca condotta da Symbola18 Musei del Futuro. Competenze digitali per il cambiamento e l’innovazione in Italia19, l’attenzione per il digitale si esaurisce spesso nell’aggiornamento del sito internet e della propria pagina Facebook. Quello che bisogna evitare è la banalizzazione degli strumenti tecnologici: se non inseriti in una strategia complessiva, possono tramutarsi in inutili gadget incapaci di apportare alcun valore aggiunto all’esperienza e all’apprendimento. La strategia digitale di un’organizzazione culturale è una questione di risorse economiche ma anche di apertura mentale e di capacità della leadership di gestire il cambiamento. Maggiore è la chiarezza nel definire obbiettivi e priorità, migliore è il coinvolgimento ottenuto nei vari dipartimenti dell’organizzazione per mettere in atto il cambiamento. Nessun prodotto digitale viene alla luce senza aver promosso significative innovazioni di processo, nuovi comportamenti e metodologie. Se è vero che molti musei italiani hanno oramai compreso la necessità di puntare sulla valorizzazione delle proprie collezioni, per migliorare il livello di engagement complessivo delle comunità con cui entrano in relazione (culturali, scientifiche e territoriali), molto deve essere ancora fatto, se si considera che il 76% dei musei italiani intervistati per il recente studio dell’Osservatorio Innovazione Digitale nei Beni e Attività Culturali del Politecnico di Milano, dichiara di non avere una strategia complessiva sul digitale. Conferma questa lettura, ampliandola al settore delle associazioni e delle imprese culturali, una serie di indagini svolte da Fitzcarraldo sui fabbisogni formativi delle organizzazioni culturali attive in 7 province italiane20, per un totale di circa 2.000 soggetti, da cui si rileva come l’uso prevalente dei social e di internet sia considerato soprattutto come un rafforzamento dei media più tradizionali (la brochure, le locandine e i comunicati stampa) e la generale estraneità degli operatori ai principali trend che cambieranno linguaggi e modalità di fruizione dei servizi nel futuro: dalla blockchain all’internet of things, dalla Realtà Aumentata alla mixed reality.

Ma anche qui si registrano segnali interessanti di un cambio di tendenza. Un caso emblematico, e ormai noto, è TuoMuseo che, dopo aver realizzato per il Museo Nazionale di Archeologia di Napoli il già citato videogioco centrando un successo internazionale, ha poi realizzato altri prodotti di gaming per istituzioni culturali italiane come il Teatro Regio di Parma e il suo Festival dedicato alla figura di Giuseppe Verdi, il Museo archeologico di Taranto e il Comune di Firenze. Anche musei di più ridotte dimensioni e con collezioni meno rilevanti per la storia dell’arte, possono sviluppare allestimenti multimediali di grande coinvolgimento e particolarmente attrattivi, grazie alle nuove tecnologie. È questo il caso, ad esempio, del Piccolo museo del diario di Pieve Santo Stefano, che valorizza, in modo interattivo, le 7mila storie scritte da gente comune. La mostra permanente progettata insieme allo studio di design milanese Dotdotdot, accompagna i visitatori dentro la narrazione attraverso una serie di spazi immersivi e multisensoriali, nei quali la fisicità degli oggetti evocatori (cassettiere, tavoli, utensili domestici) esalta la potenza della parola e si salda con voci, suoni, riflessi della luce.

È sul racconto del patrimonio culturale che la tecnologia ha trovato forme di sperimentazioni più ampie, soprattutto laddove esigenze di conservazione e tutela consigliavano l’adozione di forme di fruizione meno invasive. Sul solco tracciato da agenzie creative che hanno fatto la storia, come Studio Azzurro di Milano con le sue video-installazioni e gli ambienti sensibili capaci di dare vita e offrire un’esperienza immersiva ai visitatori di musei e mostre temporanee, lo sviluppo esponenziale e la diffusione della Realtà Virtuale e della Realtà Aumenta, inizialmente introdotte più come strumento utile a realizzare ricostruzioni virtuali scientifiche, si è via via affermata come soluzione adatta a potenziare la valorizzazione dei beni culturali ed è proprio in tale ambito che si è creato anche un interessante mercato per le imprese. Abilitando modalità di fruizione innovative, si sono moltiplicate le iniziative di nuova concezione come le mostre virtuali in cui le opere fisiche (non esponibili per ragioni di conservazione oppure perché “nascoste”, come nel caso di scavi archeologici) vengono sostituite da esperienze estetiche immersive digitali. Nel 2016 ETT Solution, oggi uno dei maggiori player italiani nel campo delle applicazioni tecnologiche per la valorizzazione del cultural heritage, realizza un percorso di Realtà Aumentata attraverso il quale il visitatore può “vedere” tramite opportuni visori l’Ara Pacis a Roma nel suo aspetto e nelle sue funzioni originarie. Nel 2018, invece, ha aperto a Mestre (Venezia) l’M9, un museo completamente multimediale dedicato alla storia del ’900 e alle trasformazioni della società e della vita quotidiana, mentre passando dalla grande città turistica ad una delle tante aree “minori” italiane, nasce a Ceglie Messapica (Brindisi), il progetto Papagna Experience, pubblicizzato come il “primo museo invisibile d’Italia”: un’iniziativa nata da un gruppo di giovani e sostenuta dalla Presidenza del Consiglio attraverso la quale i visitatori, dotati di un kit contenente uno smartphone, visore, cuffia e un libro, possono girare per il centro storico e fruire di contenuti aggiuntivi per scoprirne la storia e il patrimonio culturale.