Le imprese come luoghi essenziali di lavoro, socialità, inclusione. Nei giorni bui della pandemia da coronavirus, molte voci si fanno sentire, nel mondo economico, per iniziative di sostegno alla sanità e alle persone in gravi difficoltà. Con la consapevolezza che le imprese sono attori sociali con un forte senso di responsabilità verso le comunità in cui vivono. E dunque si muovono coerentemente con la cultura che le ispira: competitività ma anche solidarietà. La Lombardia, terra di dinamismo economico e solidi valori sociali, sinora la più colpita dalla crisi sanitaria, ne offre una dimensione esemplare. Ci sono i 100 milioni annunciati dall’amministratore delegato di Intesa San Paolo Carlo Messina per le strutture ospedaliere e di ricerca. L’avvio d’una raccolta fondi per l’Ospedale Sacco di Milano promosso da Marco Tronchetti Provera, Ceo di Pirelli. E le donazioni dei Giovani di Assolombarda e d’una serie di piccole e medie imprese della provincia milanese e della Brianza. Parecchie analoghe iniziative, stimolate dalle imprese, si preparano in altre aree d’Italia. Intanto, l’assistenza immediata. Poi, una strategia per fare funzionare l’industria “a fuoco lento”, garantendo comunque ai lavoratori tutte le condizioni di sicurezza indispensabili per la loro salute. E la preparazione alla ricostruzione e alla rinascita, con il sostegno della politica economica nazionale e della Ue. Risposte d’emergenza. E sguardo lungo sul futuro. C’è, in queste scelte, la riconferma d’un forte rapporto con il territorio, che connota storicamente le imprese italiane. E il riconoscimento che appunto nelle radici sociali sta la legittimità di una cultura d’impresa che, in Italia più che altrove in Europa, ha imparato a legare la competitività con la sostenibilità ambientale e sociale, la bellezza e i saperi umanistici con le conoscenze scientifiche. La memoria con l’innovazione. Nascono da qui l’economia circolare, l’attenzione per le persone e la loro intraprendenza, la qualità di prodotti di successo nelle nicchie ad alto valore aggiunto sui mercati globali, per meccatronica e automotive, chimica e farmaceutica, design, alimentare e abbigliamento. Il miglior Made in Italy. Oggi in difficoltà. Ma pronto a rimettersi in moto, profondamente modificato, nelle supply chain del mondo. Una sintesi sta nei giudizi di Tronchetti Provera, in un’intervista a “la Repubblica” (8 marzo): «L’impresa vive di costruzione del futuro. E quel futuro lo si progetta con una comunità che cresce in modo equilibrato. Le imprese hanno un disegno di medio-lungo periodo e progetti che vanno al di là dell’immediato. Per questo non possono che avere un ruolo sociale». La memoria va ai giudizi di Adriano Olivetti sull’impresa come bene comune, proprio nella ricorrenza dei sessant’anni dalla sua morte: «La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia… Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica». Responsabilità sociale e civile. Che risuona anche in un giudizio di Leopoldo Pirelli del 1986: «La nostra credibilità, la nostra autorevolezza, direi la nostra legittimazione nella coscienza pubblica sono in diretto rapporto con il ruolo che svolgiamo nel concorrere al superamento degli squilibri sociali ed economici dei Paesi in cui si opera». Vale la pena andare, ancora una volta, alle radici della migliore cultura d’impresa proprio in questa stagione di crisi, in cui le questioni della salute fanno emergere le fragilità di sistemi di relazioni, produzioni e distribuzione che hanno caratterizzato la visione più frenetica della globalizzazione. Abbiamo vissuto di ricerche esasperate di potenza e ricchezza, dimenticando i valori dell’equilibrio e del controllo. E se c’è chi parla di “quaresima del capitalismo”, è altrettanto vero che torna in primo piano l’esigenza di guardare ai grandi temi dei beni comuni, dall’ambiente alla salute, dalla sicurezza alla formazione e alla scienza, dalla qualità del lavoro alla qualità dello sviluppo. L’impresa, la manifattura soprattutto, si conferma, anche così, come cardine di crescita e socialità, centrale nel “cambio di paradigma” dalla rapacità dell’accumulazione finanziaria alla sostenibilità ambientale e sociale, dalle teorie dello shareholder value (care agli economisti degli anni Ottanta: i profitti esasperati, le quotazioni di Borsa, importanti ma non sufficienti per lo sviluppo) a quelle dello stakeholders value, i valori che riguardano i lavoratori, i consumatori, gli abitanti delle comunità con cui l’impresa ha rapporti. Si sono fatti passi importanti: i giudizi del World Economic Forum di Davos coincidono in buona parte con il “Manifesto di Assisi” elaborato da Symbola e dai Francescani sulla scia dell’enciclica di Papa Francesco “Laudato si'” e firmato da imprese (a partire da Confindustria e Assolombarda) e personalità di scienza, economia, cultura. In linea, il Green New Deal della presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen: «Possiamo riconciliare la nostra economia con il nostro pianeta, la sviluppo umano con la protezione della nostra casa. Troppo a lungo l’umanità ha sottratto risorse all’ambiente». Per le imprese italiane, sostenibilità e socialità sono temi ricorrenti, diffusi. Nella ricostruzione del Paese, dopo quest’ultima crisi, si può ripartire proprio da qui.