Nello stesso bunker in cui nel 2010 venne sviluppato il vaccino contro l’Ebola potrebbe nascere quello contro il Covid-19. Vetro, cemento, tute, mascherine, guanti e scarpe speciali per evitare i contagi. Sembrerebbe di essere nei laboratori dell’Area 51, invece siamo in quelli della IRBM di Pomezia, 30km a sud di Roma. Ma facciamo un passo indietro. Nel 2009 l’azienda farmaceutica Merk dopo la fusione con la multinazionale americana Schering Plough, decide di chiudere tutte le attività italiane, scorporando solo la struttura di Pomezia, per motivi di immagine: in quei laboratori l’anno precedente era stato scoperto l’Isentress, un importantissimo farmaco antiretrovirale utilizzato, insieme ad altri farmaci, per il trattamento dell’AIDS.

Pietro Di Lorenzo, allora consulente della Merk viene incaricato della vendita del centro. Dopo diversi tentativi, non riuscendo a trovare una cordata di industriali interessata, decide di concordare direttamente con i 180 ricercatori e i sindacati un drastico progetto di ridimensionamento, in vista però di un graduale ritorno alla piena produttività. La scommessa di Pietro, oggi presidente della IRBM, ha avuto successo: dai 25 ricercatori assunti subito nel 2009, l’azienda in dieci anni è tornata a impiegarne, 250, di cui i due terzi sono donne. L’azienda in questi mesi in collaborazione con un gruppo di scienziati dello Jenner Institute dell’Università di Oxford, sta sviluppando un vaccino contro il coronavirus. Dopo promettenti risultati dei test in laboratorio e sugli animali, questa settimana sono state spedite dosi del vaccino nel Regno Unito per avviare gli studi clinici su 510 pazienti volontari.