In occasione della presentazione del rapporto “Piccoli Comuni e Cammini d’Italia”, il presidente di Fondazione Symbola fa il punto sulle sfide che attendono l’Italia del post-epidemia.

Mettersi in cammino per scoprire nuove strade. È questo l’invito, letteralmente ma anche in senso figurato, rivolto da “Piccoli Comuni e Cammini d’Italia”, un rapporto realizzato dalla Fondazione Symbola, in collaborazione con la Fondazione IFEL, che esplora i cammini d’Italia, evidenziando il ruolo che questi svolgono nel valorizzare i piccoli comuni, spina dorsale del sistema paese.

Si tratta di un viaggio composto da quarantaquattro itinerari in 15.400 chilometri, che si snoda lungo tutta la penisola e le isole, attraversa 1.435 comuni, di cui 944 piccoli e incontra oltre duemila beni culturali e 179 produzioni DOP/IGP.

Una proposta originale, che suggerisce la direzione che l’Italia dovrebbe prendere per rialzarsi dalla crisi sanitaria ed economica. Ne abbiamo parlato con Ermete Realacci, già parlamentare, attualmente presidente della Fondazione Symbola e presidente onorario di Legambiente.

Ermete Realacci, qual è il senso di questa iniziativa?
Parafrasando Sun Tzu, “è quando siamo sorpresi che dobbiamo sorprendere”. Con questo rapporto presentiamo un’idea di Italia molto concreta, che s’inserisce nella discussione sulla ripresa dopo una crisi che ha colto tutti di sorpresa. L’Italia ha gestito bene il lockdown. Ora bisogna capire da dove ripartire per rilanciare l’economia.

Per questo Giuseppe Conte ha lanciato gli stati generali dell’economia…
Sì, ma come dice il filosofo francese Edgar Morin, “la crisi suscita centinaia di fiori, d’idee e d’iniziative. Ma chi farà il bouquet?” Decisamente troppe proposte e spesso troppo scontate. Si tratta d’indicare con chiarezza le priorità su cui mobilitare le energie del paese e portarle avanti con grande determinazione.

Partiamo dagli insegnamenti della crisi. Quali sono a suo avviso?
L’epidemia ha sottolineato l’importanza del sistema sanitario più legato al territorio e di un comparto agroalimentare capace di produrre cibo di qualità. Ha impresso un’accelerazione incredibile nel campo del telelavoro e della formazione a distanza. Soprattutto, ha rimesso al centro solidarietà e coesione sociale. Da questo punto di vista, per ragionare sul futuro sono importanti, più che le previsioni delle agenzie di rating, le parole di papa Francesco: nessuno si salva da solo.

L’Europa l’ha capito bene e ha messo sul piatto un pacchetto d’aiuti senza precedenti…
In Italia c’è questo dibattito, totalmente sbagliato, secondo cui si dovrebbero usare i nuovi fondi europei per ridurre le tasse. È chiaro che non sarà così. La Brexit è stata una grave perdita per l’identità europea ma, dopo l’uscita del Regno Unito, l’Europa ha compiuto un’accelerazione molto positiva su due fronti: il digitale e la green economy. È su questi temi che l’Unione europea riacquista carisma e capacità di competere. La ripresa economica, anche in Italia, passa da qui.

Il nostro paese ha le carte in regola per farcela?
Certo. Rispetto alla green economy, l’Italia, non tanto per le leggi o l’efficienza della burocrazia quanto piuttosto per i suoi antichi cromosomi produttivi, è messa molto bene. Secondo uno studio di qualche mese fa dell’università di Oxford e della Smith School of Enterprise and the Environment, i primi cinque paesi più forti nella transizione ecologica sono Germania, Regno Unito, Stati Uniti, Cina e, appunto, Italia. Inoltre, in prospettiva futura, il nostro paese è addirittura quello con il maggior potenziale.

Proviamo a fare come direbbe Morin. Come fare un mazzo con questi fiori d’idee?
La nostra visione in sintesi è: affrontare i mali antichi – primo tra tutti l’eccessiva burocrazia –, cogliere gli insegnamenti della crisi e dare forma al futuro investendo su digitale e green economy. Il tutto senza lasciare indietro nessuno. Oltre che per dirla con Cipolla sulla capacità dell’Italia “produrre all’ombra dei campanili cose belle che piacciono al mondo”. E questo come dice il Manifesto di Assisi, promosso dalla Fondazione Symbola e dal Sacro Convento di Assisi “senza lasciare indietro nessuno, senza lasciare solo nessuno”.

Io nel vostro rapporto ci ho visto anche un elogio alla lentezza, in opposizione alla cultura del qui e ora, che domina e condiziona le nostre vite…
Più che un elogio della lentezza, c’è un elogio della diversità. È questa la grande ricchezza italiana di cui dobbiamo tener conto nel formulare la ricetta per rilanciare l’economia. Daniel Libeskind, il grande architetto che ha ricostruito Ground Zero a New York, una volta ha detto che “i borghi italiani racchiudono il dna dell’umanità”.

I piccoli comuni come custodi della diversità culturale italiana e del made in Italy…
Io, a questa cosa, ci ho sempre creduto. Sono il primo firmatario della legge sulla valorizzazione dei piccoli comuni italiani. L’ho fatto perché penso che questo è un punto di forza e d’identità per l’Italia. C’è un elemento identitario italiano, legato alla comunità e ai territori, al patrimonio storico culturale che è un’occasione per il futuro del nostro paese.
Questo però richiede due cose: da un lato, le nuove tecnologie – perché oggi per competere nel mondo non ho bisogno di una ciminiera dietro casa, ma della banda larga –, dall’altro, i comuni devono star dentro la sfida della green economy. Ciò significa tante cose, come, ad esempio, un’agricoltura che punta di più sulla qualità che sulla quantità.
In questa partita, Italia può mettere in campo una varietà di culture e di suggestioni tra queste anche i cammini.

Un giorno anche il nostro paese avrà il suo cammino di Santiago di Compostela?
Anche da noi è auspicabile e possibile immaginare un cammino di quel tipo. Ma quello che l’Italia ha di veramente unico è la dimensione enorme dei suoi cammini. Solo i quarantaquattro che esaminiamo costituiscono oltre quindicimila chilometri. Quindi, più che di un cammino sul modello di quello di Santiago di Compostela, c’è bisogno di valorizzare le tante storie e identità che l’Italia può offrire.

Il vostro progetto sembra essere pensato esattamente per il post-epidemia. Promuove un turismo rispettoso del distanziamento sociale, mette al centro il cammino in un periodo in cui – dopo la pausa forzata – c’è chi cerca di rimettere al centro l’automobile. È una coincidenza?
Il nostro rapporto s’inserisce in una dinamica che era già in corso prima del coronavirus. Di cammini se ne parla da tanto tempo. Finalmente ora ci sono anche i “camminatori”, ovvero milioni di persone che hanno in mente quel tipo di turismo e quel tipo di rapporto con i territori. In questo senso, i cammini non sono solo un modello alternativo di turismo. Essi alludono anche a un’idea d’economia, di società e di cultura che esalta cose che in altri paesi non ci sono, cose che magari qualcuno pensa che siano parte di un piccolo mondo antico, ma che, invece, sono parte fondamentale di una modernità a misura d’uomo.
I cammini valorizzano i piccoli comuni e questi ultimi sono la chiave per permettere all’Italia di rafforzare il suo soft power nel mondo e la sua coesione.

Il concetto di coesione ritorna spesso nel suo ragionamento…
Un paese diviso è più debole e meno resiliente rispetto alle emergenze e alle sfide che abbiamo davanti. Del resto la bellezza dell’Italia non è figlia di una pianificazione centralizzata ma di un rapporto che abbiamo nei nostri cromosomi tra comunità e territorio che è unico, sul quale dobbiamo puntare per uscire più forti dalla crisi.

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