Ogni programma per l’innovazione ha bisogno di una visione, di persone che la mettano in pratica e di soldi per finanziarla. In quest’ordine di importanza, attualmente. Perché i soldi del Recovery Fund sono la variabile dipendente: ci possono essere se l’Italia riesce a esprimere una visione coerente con quella decisa a livello europeo e a mettere in campo le persone giuste. Le persone che fanno innovazione in Italia, del resto, non mancano: una comunità non certo maggioritaria ma fortissima che nonostante ogni difficoltà burocratica, finanziaria, culturale, ha registrato gli ottimi risultati che si deducono dai dati sulle esportazioni, dalla produttività dei ricercatori, dalla qualità manifatturiera del paese, forse persino dal numero di startup, e così via. Sicché, il problema principale è la visione. La buona notizia è che esiste la concreta possibilità di attuarla. La cattiva notizia è che occorre averla. […]

Può darsi che questa impostazione sia confortante. Ma per applicarla occorre la stessa intensità di innovazione che si vuole ottenere. E decidere che cosa si fa e che cosa non si fa. Un criterio per spendere bene il denaro europeo è quello di farlo fruttare, investendo dove l’Italia è capace di generare altro denaro e dove è talmente indietro da perderne troppo. L’Italia è una potenza europea nell’economia circolare, come dimostrano gli studi di Symbola, ed è scarsa nell’economia digitale, come registra il Digital Economy and Society Index. L’Italia possiede eccellenze nell’educazione e nella sanità ma ha ridotto le risorse dedicate all’insieme del sistema educativo e sanitario e ora deve ricompattare il sistema, perché tra l’altro questi sono i settori che servono davvero a combattere la povertà e la disparità di genere nell’occupazione, come osserva l’economista premio Nobel Esther Duflo.