La risposta alla crisi prodotta dalla pandemia e quella alla crisi climatica vanno nella stessa direzione: entrambe portano a un’evoluzione dell’economia verso un modello più orientato alla qualità, all’innovazione e all’inclusione». Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola, torna sul tema della necessità di una nuova economia, più a misura d’uomo, capace di garantire un futuro al pianeta, che era alla base del Manifesto di Assisi lanciato un anno fa dalla fondazione.

Un tema che oggi torna di attualità, di fronte alla sfida del Covid-19?
Dentro questa crisi terribile, l’Europa sembra aver ritrovato la sua grande missione, come testimoniano i numeri e gli obiettivi del piano Next Generation-EU, che mette in campo 750 miliardi per il rilancio, per il 37% destinati alla lotta contro la crisi climatica, a cui vanno aggiunti i 1.074 miliardi del budget 2021-27, per un terzo dedicati al clima. Tutto questo richiede uno sforzo per costruire una nuova economia, tanto che la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha proposto di realizzare una Bauhaus europea per affrontare la crisi climatica, dimostrando di avere ben chiaro che questa partita si vince solo mettendo in campo anche quella forma di energia rinnovabile e non inquinante che è l’intelligenza umana.

Come può contribuire il design?
Il design non è solo bellezza ed estetica, ma anche ingegneria e tecnologia e in questo senso entra di peso nel cambiamento richiesto ad esempio alle filiere industriali per adeguarsi all’economia circolare. Questa trasformazione richiede un cambiamento anche progettuale, in cui il design gioca un ruolo importante, per spostare l’obiettivo di un oggetto dalla sua forma al suo senso ad esempio allungandone la durata o favorendone il recupero. Senza dimenticare il valore estetico, perché la bellezza è ecologica e l’esperienza italiana, in tutti i settori della manifattura, lo dimostra: siamo il Paese che consuma meno energia per unità di prodotto. Gran parte della forza dell’economia italiana è legata proprio a questo incrocio tra innovazione, tecnologia, bellezza e qualità.

Quindi lei vede un ruolo da protagonista per l’Italia nella partita europea per la ripresa?
Certo: perché la costruzione di un’economia più a misura d’uomo, e perciò stesso più competitiva, richiede anche un presidio di soft power che combina tecnologia e bellezza, innovazione e design, in cui l’Italia è leader. Si è più competitivi se si scelgono le frontiere più spinte e avanzate. Cosa che accade in tanti settori del made in Italy, a volte non per sensibilità ambientale, ma per istinto, per antropologia produttiva.

Può farci qualche esempio?
Secondo il rapporto GreenItaly che realizziamo con Unioncamere, negli ultimi cinque anni 432mila aziende, cioè più di un terzo del settore manifatturiero, ha fatto investimenti sull’ambiente. Perché essere buoni conviene. Le stesse aziende sono quelle che innovano di più, esportano di più e creano più occupazione. Io penso che in molti casi queste scelte nascano da una percezione che noi italiani abbiamo istintivamente: la consapevolezza che questa è la frontiera che ci permette di andare nel futuro. Noi non competeremo mai sul prezzo o sui volumi, mentre sul terreno della qualità e sostenibilità possiamo essere molto forti e il design è essenziale a questa alleanza tra futuro, innovazione, bellezza, empatia e tecnologie.