Il mondo sta cambiando e con lui i modelli che ci hanno guidato per decenni, dimostratisi inefficienti e inadeguati a gestire le crisi del XXI secolo. Nuovi modelli che promettono maggiore efficienza per esempio nell’uso delle risorse (sharing economy, circular economy, green economy, bioeconomy), nell’uso delle competenze diffuse (open innovation, crowdsourcing), nell’accesso all’informazione (platform economy), nell’accesso ai finanziamenti (crowdfunding, sustainable bond), abilitati dalle nuove tecnologie e dal digitale.

Modelli sostenibili che stimolano e moltiplicano relazioni tra bit, neuroni e atomi, che si fondano sulla costruzione di comunità di persone unite da interessi e valori comuni e per questo più dinamici ed efficaci per affrontare le grandi sfide che abbiamo avanti a noi.

Comunità come la fabbrica a misura dell’uomo descritta da Adriano Olivetti, più diffusa in Italia di quanto pensiamo, o l’impresa riformista descritta più recentemente da Antonio Calabrò, in cui si legano competitività sui mercati più esigenti con solidarietà, profitto con benessere per i dipendenti e gli abitanti dei territori (1). Comunità aziendali, produttive, di cura, territoriali, scientifiche che diventano learning community, incubatori del cambiamento, del cui valore ci stiamo accorgendo proprio durante la pandemia. Lo abbiamo visto a Bergamo durante i mesi più duri dello scorso anno, quando 32 aziende, che non avevano mai collaborato prima, chiamate a raccolta dalla Confindustria locale per aiutare il territorio, in pochissimi giorni hanno messo in piedi una filiera che non c’era per produrre beni essenziali necessari a fronteggiare l’emergenza sanitaria: dispositivi medici, disinfettanti, ossigeno. Una filiera a km0 realizzata in tempi record, che se da un lato ha confermato l’estrema flessibilità del sistema manifatturiero italiano, dall’altro ha evidenziato il valore e il potenziale di comunità produttive vive, connesse e radicate nei territori (2). Sarà anche grazie all’esistenza di comunità scientifiche aperte, diventate ancora più interconnesse durante la crisi sanitaria, che usciremo da questa crisi.

Parliamo di un sistema di collaborazione globale che non ha precedenti nella storia e che ha permesso la realizzazione dei vaccini in meno di un anno, un fatto eccezionale se consideriamo il tempo medio di sviluppo di un vaccino pari a 7-8 anni (3). Comunità come quella del progetto Dark Side ricerca sulla materia oscura dei Laboratori del Gran Sasso dell’INFN (20 realtà scientifiche in tutto il mondo, 80 ricercatori tra cui Art McDonald, Premio Nobel per la Fisica nel 2015), attivata nei mesi scorsi dal suo coordinatore Cristian Galbiati per progettare in soli sette giorni un nuovo respiratore polmonare più semplice e meno costoso. Queste sono solo alcune tra le tante storie che hanno evidenziato il potenziale di comunità attive in grado di coagulare una pluralità di soggetti attorno a grandi sfide sociali, produttive, tecnologiche.

Ma è anche grazie alle comunità di cura, oggetto della riflessione di Aldo Bonomi, se il sistema complessivamente sta tenendo (4). Pensiamo al lavoro delle Caritas o del Banco alimentare, ma anche a quello delle associazioni di volontariato, a quello degli alpini attivi nella costruzione di ospedali e a tutte le imprese che hanno dato un contributo decisivo ai servizi sociali e che si sono impegnate in alcuni casi riconvertendo le proprie produzioni, fornendo beni di prima necessità talvolta fondamentali per la salvaguardia della vita. Un sistema di relazioni essenziale che ha fatto la differenza nei territori, rendendoli più resilienti e inclusivi. I ripetuti black out delle catene del valore asiatiche, ma anche gli effetti delle guerre commerciali tra USA e Cina, stanno convincendo molte imprese a rilocalizzarsi nei territori di provenienza per accrescere la qualità delle produzioni e rivalutare relazioni economicamente meno convenienti nel breve periodo, ma basate su ben più saldi rapporti fiduciari che potrebbero determinare vantaggi competitivi nel medio.

Il ritorno ai territori è dovuto anche al crescente valore degli asset intangibili di cui sono ricchi. Basta vedere come i marchi della moda si stiano radicando prendendosi cura di ambiente, patrimonio e paesaggi. Possiamo citare la campagna umbra di Brunello Cucinelli, la Roma delle sorelle Fendi che sostengono il restauro della Fontana di Trevi e lo sviluppo di una comunità creativa attorno all’iniziativa Alta Roma, sino a Dolce & Gabbana che da anni ha messo la Sicilia al centro del proprio lavoro, impegnandosi a valorizzarne le peculiarità identitarie e al contempo traendone ispirazione per le proprie creazioni artistiche. Un orientamento che deriva anche dal riconoscimento che sono proprio le comunità a sostenere e alimentare la creazione di valore sia nel breve che nel lungo periodo, e a fornire alla dimensione produttiva quella stabilità che a sua volta permette nel medio periodo una maggiore competitività (5).

Una competitività che sempre più si nutre di luoghi e di comunità, attori che partecipano alla costruzione di valore condiviso non come meri beneficiari ma come protagonisti e co-produttori fondamentali nell’innalzare i livelli di antifragilità dei territori, come emerge dalle analisi di Giampiero Lupatelli (6).

Un altro fattore che sta giocando a favore del cambiamento e della costruzione di nuove relazioni è la transizione ecologica,

arrivata ad un suo punto di svolta in quest’ultimo anno, con l’Europa che attraverso il Green Deal e il Next Generation EU ha accettato pienamente la sfida mobilitando ingenti risorse, assumendo come necessario e realizzabile l’obiettivo di azzerare le emissioni nette di CO2 entro il 2050. Un obiettivo che è stato fatto proprio anche dal Giappone, dalla Corea del Sud e che sta per essere assunto anche dall’America di Joe Biden, mentre la Cina lo ha collocato al 2060. Già in passato l’Unione Europea aveva sviluppato politiche spinte sui temi ambientali, portando per esempio al centro del dibattito il tema della responsabilità estesa del produttore, con la conseguenza, esplorata più avanti, che gli attori della filiera hanno iniziato a dialogare e collaborare per circolarizzare i processi produttivi.

Un impegno che vede protagoniste le imprese: si veda la lettera aperta “Global leadership Covid-19 response”, scritta da un gruppo di importanti multinazionali (fra cui L’Oréal, Danone, Mastercard, Pearson e Philips) che come sottotitolo recita “Cross-sector collaboration for a purpose-first economy”. Ma anche la società civile. In Italia un’importante risposta trasformativa per guidare il cambiamento è incarnata nel Manifesto di Assisi (7), promosso da Fondazione Symbola e dal Sacro Convento di Assisi, che ha raccolto una comunità di circa 4.000 esponenti del mondo economico, imprenditoriale, accademico, istituzionale, associazionistico, del terzo settore e cittadini, che condividono e si impegnano nello sviluppo di un’economia a misura d’uomo come soluzione per combattere la crisi climatica.

Enzima di molte delle trasformazioni descritte è il digitale, che può rappresentare una svolta non solo tecnologica, ma uno strumento che ha potenziato e abilitato lo sviluppo di nuove comunità ed ecosistemi ibridi a matrice territoriale.

Da quelle scientifiche che sul web condividono ricerche e scoperte, a quelle formate da cittadini che condividono servizi e legami grazie a piattaforme social (si veda a proposito il fenomeno delle “social street”). Il digitale ha innescato un vero e proprio cambiamento antropologico che interessa la persona nella sua totalità, facilitando la creazione di nuove comunità di interesse e mettendo in connessione diretta tra loro persone, cittadini, imprese e istituzioni. Il digitale attiva nel bene e nel male le persone come attori consapevoli delle loro scelte sul mercato e nella società. Oggi il 59% della popolazione mondiale (4,57 miliardi) è un utente attivo di Internet, il 51% (3,96 miliardi) è attivo sui social network: ci rendiamo conto delle potenzialità del digitale. La pandemia ha accelerato la diffusione della digitalizzazione: tra luglio 2019 e luglio 2020, gli utenti dei social sono aumentati di 376 milioni. Un nuovo protagonismo diffuso che portò la rivista Time nel 2006 a designare “Persona dell’anno” l’internauta, dedicando questo titolo a tutte le persone che stavano partecipando all’esplosione della democrazia digitale (8).

Grazie al digitale è possibile creare infatti nuove forme di mutualismo e di condivisione capaci di scambiare interessi, mettere in connessione servizi, far dialogare imprese, territori e clienti e dare a tutti allo stesso tempo la possibilità di ideare, produrre e fruire beni e servizi. Il digitale, che come sappiamo ha anche tanti limiti che non affronteremo in questa sede, tra i suoi effetti benefici ha avuto quello di innescare un grande meccanismo di trasparenza e controllo, abilitando azioni e opinioni da parte delle persone che hanno spinto imprese e pubbliche amministrazioni a rendere conto periodicamente dei propri comportamenti e ad aprirsi nelle relazioni con i propri cittadini o clienti, con cui sempre più condividono scelte e valori. Un meccanismo che sta accelerando nelle istituzioni pubbliche il processo di transizione dal “governo” alla “governance” dei processi.

 

(1) Calabrò A. (2019), L’impresa riformista. Lavoro, innovazione, benessere, inclusione, Università Bocconi Editore: Milano.

(2) Gamba C., Le imprese di Bergamo alleate: filiera d’emergenza sulle mascherine, Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2020.

(3) Sturabotti D., Ventilatori polmonari da Nobel per gli ospedali italiani, Fondazione Symbola – Diario di bordo delle imprese made in Italy
contro il Covid-19, 1 aprile 2020. https://new.symbola.net/ approfondimento/ ventilatori-polmonari-da-nobel-per-gli-ospedali-italiani/

(4) Bonomi A. (2010), Sotto la pelle dello Stato. Rancore, cura, operosità, Giangiacomo Feltrinelli Editore: Milano.

(5) Minnaar J., The Age Of Community Capitalism, Corporate Rebels, 2020. https://corporate-rebels.com/ community-capitalism/

(6) Lupatelli G. (2021), Fragili e Antifragili. Territori, Economie e Istituzioni al tempo del coronavirus, Rubbettino Editore: Soveria Mannelli
(CZ)

(7) Scaricabile sul sito di Fondazione Symbola al link: https://new.symbola.net/ manifesto/

(8)  Time, 26 dicembre 2006.