L’incremento esponenziale della produzione di “beni immateriali”, unito alle nuove modalità di organizzazione del lavoro e alla riduzione del ciclo di vita dei prodotti, ha creato le premesse per un massiccio coinvolgimento di saperi e competenze in tutti i segmenti dell’economia. Competenze che per quantità e varietà necessariamente devono essere cercate e aggiornate continuamente e ovunque. In questa direzione si sono mosse per prime le grandi aziende che, consapevoli della necessità di cambiare ma troppo lente per farlo, hanno iniziato ad esplorare concretamente idee nate da dipendenti, collaboratori, fornitori, ricercatori o start-up, capendo via via l’importanza di questa nuova strategia.

Da qui la spinta ad andare oltre i propri perimetri aziendali per inserirsi all’interno di circuiti, a volte creandoli, dai quali attingere saperi decisivi per la competitività, con un duplice vantaggio: da un lato mettere a sistema tanta conoscenza prima non valorizzata, dall’altro ridurre i tempi tra la fase di ideazione di beni e servizi e la loro commercializzazione.

Uno scambio che richiede un cambio di mentalità delle imprese che devono diventare allo stesso tempo aperte, trasparenti, attrattive e capaci di dare valore a queste comunità di cui diventano parte e da cui potranno ottenere nel medio periodo valore.

Un modello (1) alla cui diffusione abbiamo assistito negli ultimi anni, che ha reso decisamente più competitive proprio quelle imprese che hanno saputo cogliere tutto il potenziale della conoscenza diffusa.

Questa capacità cambia molto il modo di operare dell’impresa da sistema chiuso a sistema relazionale.

Ci siamo abituati in questi anni a nuovi format come gli hackaton, in cui le imprese chiedono a sviluppatori e programmatori di pensare soluzioni innovative relative a un determinato settore e in un tempo estremamente breve, oppure gli incubatori o gli acceleratori di start-up direttamente o indirettamente gestiti dalle imprese per selezionare e sviluppare nuove idee.

Crescono così le partnership e rapporti di collaborazione con università, centri di ricerca o gruppi di ricercatori. A queste si aggiungono le diverse forme di collaborazione delle imprese all’interno dei distretti industriali e i poli dell’innovazione o cluster che permettono alle imprese che ne fanno parte di scambiare conoscenze, domande di innovazione e dotarsi di antenne in grado di recepire con rapidità i cambiamenti che avvengono e sviluppare strumenti e strategie più efficaci per rispondere ai nuovi bisogni e criticità.

In crescita sono i casi di innovazione di prodotti o servizi frutto della collaborazione con il terzo settore, sempre più considerato un nuovo portatore di conoscenze utile a conoscere e risolvere determinati problemi o ad esprimere nuove domande che spingono le aziende a innovare. Un continuo processo di ascolto e dialogo con soggetti esterni all’impresa diventa dunque la premessa per l’individuazione di quelle conoscenze e informazioni utili alla produzione. Un processo che ha bisogno di codici comuni di comunicazione che rendano fluida la relazione tra le parti, che passano dalla creazione di un linguaggio comune alla conoscenza personale. Un’apertura che va accompagnata con cambiamenti interni alle imprese, nei modelli di business, nello stile di leadership, nel clima e nella cultura aziendale. La numerosità e varietà di collaborazioni con fornitori di conoscenza da sole non sono infatti sufficienti, se non c’è una apertura interna di tutti i livelli dell’azienda che saranno chiamati ad assorbire, interpretare e combinare i feedback esterni e tradurli in nuovi modelli di business. In assenza di questo le nuove idee non trovano un contesto favorevole al loro sviluppo. Sotto questa prospettiva la conoscenza diventa un bene comune di tutta la comunità aziendale con ricadute positive anche sulla competitività.

Secondo un recente studio le aziende che adottano allo stesso tempo pratiche di open innovation e pratiche virtuose di gestione del personale vedono un livello di profittabilità (ROCE) quasi doppio rispetto a quello delle altre imprese (2), perché accogliere stimoli, domande, critiche esterne aiutano a migliorare nel tempo il funzionamento dell’impresa e le sue performance.

Parlare della rilevanza della conoscenza nei processi produttivi significa inoltre considerare il rapporto tra questa e i luoghi, ovvero il “dove” tale conoscenza viene a svilupparsi. In molti casi è proprio la variabile del luogo a determinare la creazione di forme di capitale cognitivo la cui messa a valore fa nascere meccanismi di attrazione che innescano circoli virtuosi di contaminazione e continuo sviluppo.

 

(1) Chesbrough H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business School
Press.

(2) Cotec (2021), Open innovation.