La svolta verde, nonostante la politica. Parla Ermete Realacci. “L’Italia può essere protagonista della transizione ecologica, ma serve un cambio di passo”, sostiene il presidente della Fondazione Symbola.
di Matteo Angeli
Ventott’anni ci separano dalla data che l’Unione europea s’è imposta per raggiungere la neutralità climatica – il 2050. Ad oggi, più del 70 per cento dell’energia consumata nel continente viene ancora da combustibili fossili. In questo contesto, la transizione energetica assume i contorni di una sempre più accelerata corsa, tra le speranze offerte dalla tecnologia e il silenzio di buona parte della politica a dei media. A che punto è l’Italia? Ne abbiamo parlato con Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola, presidente onorario di Legambiente e, dal 2001 al 2018, parlamentare con l’Ulivo e poi con il Pd. Suoi molti provvedimenti per l’ambiente e l’economia green, come la legge sugli ecoreati e la legge per la valorizzazione dei piccoli comuni.
Ermete Realacci, l’ambiente è il grande assente nel dibattito politico italiano. Perché?
L’ambiente e i temi connessi sono sempre più presenti nelle società e nell’economia ma faticano nella politica. Troppa parte della politica istituzionale continua a pensare ad esempio che le risorse messe a disposizione dal Next Generation EU siano una sorta di grande legge di bilancio gratuita perché pagata all’Europa. Non è così. Vanno investite in tempi certi nelle direzioni che Bruxelles ha indicato: coesione, transizione verde, digitale. In particolare alla transizione verde va la quota maggiore. Non a caso il presidente Mattarella nel suo discorso d’insediamento ha detto “siamo i maggiori beneficiari del programma Next Generation EU e dobbiamo rilanciare l’economia all’insegna della sostenibilità e dell’innovazione, nell’ambito della transizione ecologica e digitale”.
Le bollette energetiche aumentano e in Italia c’è chi punta il dito contro le rinnovabili.
È una lettura totalmente sbagliata, spinta da interessi economici del passato e figlia di vecchi riflessi culturali. La verità è un’altra: il caro bollette è legato all’aumento del prezzo del metano ed alle speculazioni collegate. Le rinnovabili sono la soluzione a questo problema. Se ne avessimo di più i prezzi dell’energia sarebbero oggi più bassi e meno volatili.
E invece?
Il nostro paese è lontano dalla quantità di energia rinnovabile che si è impegnato ad avere entro il 2030, cioè il 72 per cento. In questo momento, in Italia la quota di rinnovabili nell’elettrico è solo tra il 35 e il 40 per cento. Per rispettare l’obiettivo che ci siamo dati, dovremmo installare 7-8 mila megawatt all’anno di fonti rinnovabili: al momento ne installiamo meno di mille. La Germania, che non ha il nostro sole e il nostro idroelettrico, è passata dal 6 per cento del 2000 al 48 per cento odierno. E i tedeschi si sono impegnati a centrare l’80 per cento di energie rinnovabili entro il 2030.
Cosa fa la nostra classe politica per colmare il ritardo?
Pochissimo. Ciononostante, l’Italia è avanti in tanti settori produttivi. Questo perché siamo un paese povero in materie prime, che nel corso degli anni ha dovuto fare molto per essere più efficiente.
Ad esempio, noi italiani recuperiamo il 79 per cento di materie prime nei cicli produttivi. Quasi il doppio della media europea e molto più della Germania, primo paese manifatturiero del continente. Ciò ci consente di risparmiare ogni anno 23 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio e 63 milioni di tonnellate equivalenti di CO2. L’energia che costa meno è quella che risparmi usando intelligenza e innovazione.
Si tratta del settore più penalizzato dopo la crisi del 2008. Adesso attraversa in una fase nuova, legata alla riqualificazione edilizia, aiutata dagli ecobonus, che permettono di far risparmiare alle famiglie tantissimo in termini di bollette, riducendo i consumi e l’inquinamento. Non dimentichiamo che un terzo dei consumi energetici sono legati agli edifici. Sono stati già creati circa 100.000 posti di lavoro e si pensa se ne attiveranno altri 200.000.
I cittadini italiani sono pronti a questa transizione?
In molti casi sì. Pensiamo alle raccolte differenziate urbane, impossibili da realizzare senza la collaborazione dei cittadini. In questo campo, l’Italia è superiore alla media europea e vanta punte d’eccellenza. Ad esempio, Milano, assieme a Vienna, è la città europea sopra il milione di abitanti con la raccolta differenziata più alta. Nella raccolta dell’umido, il capoluogo lombardo è addirittura la prima città del mondo tra quelle con più di un milione di abitanti. Ora la partita è aiutare i cittadini ad utilizzare al meglio l’ecobonus.
La misura così com’è funziona?
La detrazione del 110 per cento delle spese sostenute è forse troppo alta. La misura andrebbe ridotta ma estesa nel tempo e nei soggetti interessati, semplificata per evitare blocchi burocratici. Va inoltre prestata particolare attenzione alla necessità di garantirne l’utilizzo anche alle fasce sociali più deboli.
Nei prossimi anni chi possiede un’auto a benzina o diesel pagherà sempre di più. Come evitare che questo costo diventi insopportabile per le famiglie?
Non cambierà il costo delle auto a benzina o diesel ma diminuiranno nel tempo. Va gestita la transizione aiutando con politiche adeguate le imprese e i lavoratori che saranno interessati dalla transizione verso l’elettrico.
Molte persone però non possono ancora permettersi un’auto elettrica.
Le auto elettriche saranno sempre più convenienti anche dal punto di vista economico, soprattutto tenendo conto del costo più basso di alimentazione e manutenzione. È importante per l’Europa non perdere questa sfida economica e tecnologica ed è una buona notizia la conferma del progetto di una gigafactory per le batterie a Termoli. Bisogna evitare di inseguire palle perse.
In che senso?
Il nucleare è un chiaro esempio di palla persa. Il nucleare ha perso nell’occidente non per i referendum ma per i costi. Nel 2021 nel mondo secondo Bloomberg la potenza nucleare è diminuita di 3000 MW (3GW) e quella rinnovabile aumentata di 290.000 (290GW). È comprensibile la posizione della Francia che dipende molto dal nucleare (anche se la potenza è diminuita negli ultimi anni) e fa fatica perché il suo nuovo impianto di Flamanville è passato da un costo di 3,7 miliardi di euro secondo la Corte dei Conti francese e oltre 19 miliardi complessivamente. Poi c’è il legame tra nucleare civile e nucleare militare che Macron ha più volte ricordato. Un nucleare militare che potrebbe essere parte di un esercito comune europeo. Per questo puntano all’inserimento del nucleare nella tassonomia verde. Posizione comprensibile ma non condivisibile.
La minaccia della crisi climatica sarà sufficiente per convincere la gente ad abbracciare il cambiamento?
No. Gli obiettivi posti dall’Unione europea vanno letti nella maniera giusta. Non si tratta solo di difendersi da uno scenario catastrofico. Questa è anche l’occasione per rilanciare la nostra economia. L’Europa ha capito che sul terreno della transizione si gioca il futuro della sua economia, della sua società e il suo ruolo nel mondo. Non basta però ripetere “lo dice la scienza”. Alexander Langer aveva ragione nel sostenere che la conversione ecologica per essere vincente deve essere socialmente desiderabile. Le persone vanno messe nella condizione di appropriarsi di questo progetto. Come accade, ad esempio, attraverso lo strumento delle comunità energetiche, che possono funzionare bene su scala locale. Esso permette a comuni, parrocchie, gruppi di cittadini o di imprese, di ottenere facilitazioni per autoprodursi l’energia mediante fonti rinnovabili. Ci sono grande attenzione e movimento in questa direzione. Speriamo che le forche caudine e le lungaggini della burocrazia non siano un freno. In questo come in tanti altri settori in gioco non c’è solo la difesa da un pericolo ma l’opportunità di costruire un futuro più a misura d’uomo e un’economia più forte. È una sfida esaltante ma anche conveniente.