Un’altra economia è possibile. Anzi, è necessaria. Quando lo sfruttamento selvaggio delle risorse diventa un lusso che non ci possiamo più permettere si scopre che la vera forza dell’Italia sta nello sviluppo sostenibile. «In un momento così complicato come quello che stiamo vivendo, fra clisi climatica, siccità, pandemia e guerra, bisogna finalmente rendersi conto che la sostenibilità non è solo un rifugio per le anime belle, ma la materia prima stessa dell’economia di oggi e di domani», ragiona Ermete Realacci, presidente di Fondazione Symbola. È sotto questo slogan, «La forza della sostenibilità», che si è riunito il popolo di Symbola nel seminario estivo di Treia, nelle Marche, che si è appena concluso.

Il ragionamento corrente è che prima ci si occupa delle questioni serie e poi dell’ambiente e del resto… non è così?
«Assolutamente no. Come abbiamo sempre sostenuto il ragionamento va ribaltato e oggi ne vediamo la dimostrazione. Il mantra dei “frenatori”, ancora oggi dominante in vaste aree della politica, è che l’ambiente è importante (neanche Jack lo Squartatore oggi sosterrebbe che l’ambiente non è importante) ma prima bisogna far ripartire l’economia e poi ci si occupa del resto. Invece è il contrario. Se non si fronteggia con urgenza la crisi climatica, se non si spingono al massimo le fonti rinnovabili, se non s’innova in nome dell’ambiente, l’economia non riparte e la società s’indebolisce».

«Esattamente. È ampiamente dimostrato che le aziende più sostenibili sono anche le più competitive. E in Italia su questo punto non mancano le buone pratiche, l’importante è valorizzarle. È inutile partire con programmi top down senza nemmeno provare a leggere la realtà. Bisogna invece partire dall’Italia che c’è per capire quali sono le radici di futuro».

Quindi dobbiamo ringraziare chi fa barriera contro le innovazioni sostenibili, come le fonti rinnovabili o l’auto elettrica, se oggi ci troviamo impreparati di fronte alle crisi in corso?
«Sulle tecnologie pulite purtroppo l’Italia è ferma. Abbiamo prodotto più energia rinnovabile nel 2014 rispetto all’anno scorso e non ci siamo ancora rimessi in moto, mentre i Paesi nordici ormai ci hanno superato di slancio. L’anno scorso l’Olanda, che è più piccola di Sicilia e Calabria messe assieme, ha installato oltre 3000 megawatt di fotovoltaico contro i 700 megawatt del “Paese del sole”. Basterebbe un minimo di memoria storica per accorgersi che c’è gente in Italia che continua a parlare di energia e non ne ha azzeccata una negli ultimi decenni. E il voltafaccia di Marchionne sull’elettrico, purtroppo, ce lo ricordiamo tutti».

Come reagire?
«Una volta Alexander Langer disse: la riconversione ecologica si affermerà soltanto quando sarà socialmente desiderabile. Ora ci stiamo arrivando: “socialmente desiderabile” non è solto un concetto culturale ma significa anche lavoro, legami, identità. In altri Paesi, come la Francia, lo Stato è nato prima della società, ma in Italia è il contrario, la società è nata prima dello Stato. Se vogliamo fare passi avanti dobbiamo partire dall’attenzione ai territori. Non per la necessità, come spesso si dice, di “difendere le aree deboli”, ma perché solo dalle rete delle comunità può venire una risposta».

Purtroppo, però, le comunità rurali si stanno spopolando.
«Durante la pandemia c’è stato un primo accenno in controtendenza, quando molte persone si sono rese conto di poter lavorare anche a distanza. Mi ha colpito il caso di due gruppi di studenti, uno tedesco e uno inglese, che frequentavano l’università da remoto: si sono trasferiti uno in un paesino calabrese e l’altro in un paesino sardo. L’attrattività dell’Italia è molto forte se si sposa con la tecnologia».

Certo, i nomadi digitali fanno prima a trasferirsi in Calabria piuttosto che in Thailandia. Però hanno bisogno di una buona connessione e in Italia c’è una penetrazione della banda larga del 17% nelle zone rurali, peggio che in Africa…
«Non a caso fra le misure principali che prevedeva la legge sui piccoli Comuni a mia firma, oltre alla tutela dei servizi essenziali come l’ufficio postale o la scuola, c’era una forte spinta all’infrastrutturazione tecnologica. Oggi per attrarre i giovani non servono le ciminiere che fumano, ma la banda larga sì. Non è una questione di diritti civili, ma di competitività che riguarda tutto il Paese. Soltanto con la tecnologia si tiene insieme la società, non come un piccolo mondo antico, ma come un tessuto solido da cui ripartire per affrontare insieme le nuove sfide».