Nei miei racconti di microcosmi sono sempre sulle tracce di un terzo racconto, quello del territorio da mettere in mezzo tra Stato e mercato. Categorie della verticalità certo importanti, ma che, specie in Italia, non esauriscono la categoria dello sviluppo, inteso come meccanismo autopropulsivo e adattivo orizzontale in cui gli attori minuti concorrono alla costruzione sociale partendo da una coscienza di luogo in grado di rapportarsi con la narrazione dei due racconti egemoni. Per questo ogni anno vado a Treia al seminario di Symbola. Lo trovo un comune luogo di riflessione nell’epoca dei flussi che impattano nei luoghi. E che flussi: pandemia, guerra e disastro ecologico. Ha ragione Papa Francesco nel dire che «il pastore non conosce più l’odore delle pecore», l’odore delle vite minuscole spaesate che cercano orientamento e il come tare tessitura sociale ed economica radicata nei territori. Da qui occorre ripartire per ridare slancio a un volgo disperso che fatica a riconoscersi in una qualsiasi verticalità istituzionale e sempre più si percepisce disconnesso dalle metamorfosi delle imprese e dei lavori. Negli anni ho visto partecipare a Symbola, mobilitato dal “Potere dell’ambiente” come ci ha ricordato Fabio Renzi, un “terziario riflessivo” di lavoro consulenziale nei territori e nelle imprese. Come evitare il rischio di parlarci addosso per noi eventologi e comunicatori di territori, di non avere altri interlocutori che altri esperti di sostenibilità, di Esg e raccontare scenari più meno apocalittici, nella totale assenza di partecipazione sociale? Perché come ci ammoniva Alex Langer, ricordato da Realacci, «la conversione ecologica si afferma solo se socialmente desiderabile». Non basta essere solo banditori di bandi del Pnrr o delle raccomandazioni che discendono dalla Europa °consulenti di imprese e comunicatoti della green economy in una dilagante pubblicità greca. Da questo punto di vista è evidente che la questione non può essere affrontata in maniera efficace solo dallo Stato e dalle sue articolazioni a colpi di bando, né dal Mercato che agisce secondo criteri di attrattività e convenienza del capitale. Ci vuole anche un protagonismo della società che trasformi il volgo disperso in volgo parlante, per evitare che «le pecore si mettano i gilet gialli». Il che non rimanda a un generico appello alla fratellanza umana, quanto piuttosto nello stabilire un diverso rapporto tra mezzi e fini nell’antropocene. Siamo passati da una società con mezzi scarsi, ma con fini certi aura epoca con mezzi sempre più potenti, ma confini totalmente incerti. Piegare l’epoca della potenza della tecnica, il tecnocene, al territorio e ai suoi fini è una speranza. Le imprese che fanno green economy lo hanno capito incorporando il concetto del limite per innovare e cambiare, l’Europa, la statualità pare darsi come fine la riconversione ecologica, il terzo racconto del territorio se vuoi farsi green deve incorporare il divenire di comunità, partendo dalla coscienza di luogo. La comunità, come ci ha insegnato Adriano Olivetti, non è solo competenza sui mezzi, ma è anche capacità di negoziazione sui fini conio Stato e con il mercato. Auspico Comunità con capacitazione di negoziare e collocare il territorio nel divenire delle piattaforme digitali, nella metamorfosi di quelle agricole e manifatturiere, di quelle energetiche, di quelle urbano-regionali dai piccoli comuni alle città del nostro abitare… che abbiano chiaro che senza piattaforme sociali che ne fanno radicamento e fondamenta, tutte quelle che stanno sopra diventano solo rappresentazione dì un primo popolo a un secondo popolo silente e impaurito nel salto d’epoca che ci aspetta. Mettere in mezzo il terzo racconto del territorio tra Stato e mercato presuppone anche per il terziario riflessivo che opera sul territorio a far ricerca, accompagnamento dei bandi e nelle imprese dellagnren economy di percepirsi come social agent riprendendola pratica olivettiana dell’intervento di comunità. Così come il paradigma della green emnomy presuppone imprese capaci di intemalizzare il senso del limite, così la green society presuppone Pincorporazione della comunità nel concetto di territorio, Il che significa, ad esempio, ragionare intorno alle rappresentanze e alle istituzioni della comunità, intese sia come rinnovamento delle vecchie sia come invenzione di nuove sulla base del riconoscimento di soggettività emergenti. Chi fa lavoro di territorio rilegga il monito che Giuseppe De Rita ci trasmette coni suoi go anni: «Non ci siamo mai concessi l’insostituibilità, anzi ci siamo molto dedicati a trasmettere il testimone». Cosi come trovo indicativo a mo’ di motto del seminario di Symbola alcuni versi di Emily Dickinson che trovo particolarmente indicati: «Non conosciamo mai la nostra altezza, finché non siamo chiamati ad alzarci». È questo il senso del terzo racconto in cui le comunità e il “secondo popolo” potranno alzarsi, assumere parola e contribuire ad affrontare le sfide epocali che abbiamo davanti.