Il punto è adesso come percorrerla e quali ostacoli evitare lungo il percorso. Partiamo da questi e in particolare da uno dei più grandi, che in forma di slogan potrebbe suonare così: non mettiamo la transizione solo nelle mani dei ministri competenti. Al G7 in Germania il presidente del Consiglio Mario Draghi ha affermato che non possiamo permetterci gli stessi errori commessi con la crisi del 2008 e ha aggiunto che “la crisi energetica non deve produrre un ritorno del populismo”. Affinché ciò accada, occorre quindi una risposta di ampia portata da parte dell’Europa, che non disgiunga mai transizione ecologica, crescita economica giusta e inclusiva e nuove opportunità di occupazione. Questo è un punto dirimente. Per affrontarlo dobbiamo sciogliere alcuni nodi che bloccano la discussione. Per esempio, ci gioverebbe molto accantonare l’improduttiva contrapposizione tra chi vuole tutto e subito, costi quel che costi, e l’approccio negazionista di chi resterebbe tranquillamente a guardare. Non fanno meglio nemmeno alcune dichiarazioni a Bruxelles, in cui un po’ pedantemente ci si limita a definire target o a indicare soglie massime, sicuri che mercato, produttori e lavoratori si adegueranno senza batter ciglio. Una visione magica e burocratica, ignara di quanto siano faticose, costose e complesse le innovazioni dei processi produttivi. Non che convincano le tesi opposte, quelle di chi non vede i limiti del consumo delle risorse ambientali e non crede nelle risposte dell’innovazione tecnologica. Forse aiuterebbe di più superare questi estremi con un’idea diversa di politica industriale, basata su di un pragmatismo produttivo e un riformismo sostenibile. Ci rendiamo conto che non suona glamour, ma crediamo riassuma bene un preciso approccio alle gigantesche questioni con cui ci misuriamo. Dobbiamo raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione, ma con l’ambizione di accrescere la competitività economico-industriale europea su scala globale, non di avviarci verso la deindustrializzazione dei nostri paesi. Lo ha detto bene Ermete Realacci, figura storica dell’ambientalismo: “L’Europa non deve affrontare la sfida dei cambiamenti climatici ‘per far contenta Greta’, ma per rendere più forte la Ue davanti alle sfide del nostro tempo, clima in testa, e per renderla un punto di riferimento nel mondo”. Così forse è più chiaro il riferimento ai ministri competenti. Limitarsi a fissare target, stilare tabelle, indicare coefficienti, nella speranza di ingabbiare i mutamenti del nostro tempo, suona già vecchio e non aiuta nella mobilitazione delle coscienze. Non è sufficiente fissare obiettivi ambiziosi e poi attendere che il mercato si adegui automaticamente rivoluzionando prodotti, processi e filiere, tanto più che l’Europa, il più grande mercato libero, non primeggia per investimenti in ricerca e sviluppo. Il Green deal è certo la risposta ai cambiamenti climatici, ma pure l’occasione per ricostruire su basi nuove la nostra capacità economica e industriale. Agli scettici di casa nostra non serve replicare con un’alzata di spalle né con inoppugnabili teorie apocalittiche sul clima. Faremmo piuttosto notare la convenienza di investire su noi stessi, puntando a nuove soluzioni tecnologiche e a produzioni non meno esportabili delle attuali, unendo necessità e convenienza. La seconda grossa buca riguarda l’impatto sociale. Servono regole che rendano le transizioni (anche quella digitale) socialmente sostenibili, individuando anche nuovi diritti e nuove garanzie, coerentemente col modello economico europeo attento alla coesione sociale e ai diritti del lavoro. Vediamo con il pragmatismo di cui sopra come sia possibile rendere concreta e fattibile la transizione, evitando “le buche più dure”, per prendere in prestito un verso di Lucio Battisti. Sicuramente la decisione di destinare per questi obiettivi i fondi stanziati dal Next Generation Eu va nella direzione giusta, ma serviranno investimenti ulteriori: il commissario agli Affari economici Paolo Gentiloni, a ottobre scorso, ha stimato per le “transizioni gemelle” (verde e digitale) un fabbisogno che ammonta a 650 miliardi annui fino al 2030, dei quali 520 per la sola transizione verde. Aiutandoci con una proporzione e con le stime di Confindustria, possiamo dire che per l’Italia questo significherà circa 70 miliardi l’anno. Logico dunque, come sta accadendo, che si rinegozino le regole del Patto di stabilità e crescita, evidentemente incompatibili con le sfide sopra indicate e i loro costi, aggravati peraltro dall’attuale contesto inflattivo che certo non aiuta. Nel frattempo molti settori cominciano a comprendere la necessità del cambiamento. Vediamo ad esempio che mercati e finanza si stanno orientando verso progetti green, accompagnando molti player industriali a loro volta già partiti su questa via senza esitazioni. Segnali positivi, ma pragmatismo vuol dire attenzione a tutte le filiere soggette a trasformazione, anche quelle più complesse: agricoltura, manifatturiero, automotive, i settori cosiddetti “hard-to-abate”, nei quali è più difficile ridurre in modo drastico le emissioni (acciaio, cemento, ceramica, chimica, carta, vetro). In questi settori non ci si può limitare a imporre target, ma servono strumenti concreti di politica industriale come mai se ne sono adottati in Europa che, per come è stata costruita, è sempre stata più incline a definire regole di concorrenza che a sostenere gli investimenti. Uno strabismo oggi pernicioso, visto che, nel quadro delle transizioni, la competizione non è tra i 27, ma tra Europa e resto del mondo. A questo proposito, oltre al Next Generation e ai fondi del bilancio europeo 2021-2027, dobbiamo sfruttare appieno il potenziale di programmi come InvestEu, gestito in Italia da Cassa depositi e prestiti e che stimolerà investimenti per oltre 372 miliardi di euro; e il citato “RePowerEu”, per la diversificazione energetica e le infrastrutture di connessione energetica di nuova generazione, a partire dall’idrogeno. Il programma “Horizon” sarà invece utile per spingere la ricerca scientifica applicata, il Fondo per l’innovazione per sostenere la decarbonizzazione dei settori industriali, e il Fondo sociale per il clima per aiutare le famiglie e le microimprese più esposte ai costi della transizione verde. Dobbiamo inoltre irrobustire la nostra capacità di produzione di semiconduttori attraverso il Chips Act che, catalizzando 43 miliardi di risorse, dovrebbe portare all’Europa una quota di mercato globale del 20 per cento entro il 2030.