C’è una caratteristica originale di molte delle imprese italiane, che ne connota la competitività e ne assicura il successo nelle nicchie a maggior valore aggiunto dei mercati globali: la loro “cultura politecnica”, la capacità cioè di realizzare prodotti e servizi in cui i saperi umanistici si innestano sulle più sofisticate conoscenze scientifiche e dunque il gusto per la bellezza e la qualità (il miglior design, nella sua accezione più ampia e complessa) si lega all’innovazione tecnologica, rafforzando così la meccatronica e la robotica, l’automotive e la chimica, l’industria aerospaziale e la nautica, oltre che, naturalmente, i settori tradizionali del made in Italy (arredo, abbigliamento, agroindustria). È un “saper fare” che ha radici profonde nella sapienza dei territori produttivi e che si raccorda con scienza e ricerca dei Politecnici e delle migliori università italiane. E che, in tempi recenti, mostra di sapervi vere con intraprendenza la twin transition, ambientale e digitale, economica e sociale, stimolando le capacità concorrenziali delle imprese. Le acciaierie green e la farmaceutica d’avanguardia, l’industria della gomma ai vertici delle classifiche Esg e la moda prodotta accanto ai borghi medioevali restaurati sono brillanti testimonianze su come lavorare e, dunque, scrivere «Una storia al futuro», per riprendere il titolo essenziale dell’ultimo libro curato dalla Fondazione Pirelli ed edito da Marsilio, dedicato «ai 150 anni di industria, innovazione, cultura» di una grande multinazionale italiana. I musei e gli archivi d’impresa riuniti in Museimpresa (l’associazione nata più di vent’anni fa daAssolombarda e Confindustria e oggi animata da ol(Te no iscritti) ne sono conferma, tra memoria e contemporaneità. L’attitudine a “fare, fare bene e fare del bene” merita anche un racconto migliore di quello che la letteratura e l’informazione abitualmente dedicano all’impresa, una più puntuale rappresentazione, anche per dare ai valori manifatturieri, alla “morale del tornio” lo spazio che meritano nel discorso pubblico italiano. Su questo terreno sono indispensabili l’incontro e la collaborazione tra l’impresa come soggetto attivo di cultura politecnica e le imprese culturali e creative, il cui ruolo crescente Un asset fondamentale che deve allearsi con il know-how valoriale e organizzativo delle imprese manifatturiere è sottolineato sia dalle ricerche di Federcultura che da quelle di Fondazione Symbola e Unioncamere. Le imprese creative driven sono infatti uno straordinario capitale sociale dell’Italia, un altro asset fondamentale della competitività dell’intero sistema Paese. La sfida che le riguarda (cinema, tv, teatro, editoria, fotografia, comunicazione, musei e spazi d’arte e tutte le forme high tech nell’universo digitale, con un occhio attento anche al metaverso) investe anche la necessità di crescere dal punto di vista dell’organizzazione d’impresa, delle strutture, della capitalizzazione, della forma societaria e della stessa governante, con una relazione efficace con le culture e le regole di mercato. Un’attenzione competente del nuovo governo, con l’uso della leva fiscale analogo a quello usato per stimolare la trasformazione digitale verso Industria 4.0 sarebbe, in questa direzione, quanto mai opportuna. Quanto al rapporto tra imprese in cerca di rappresentazione e imprese creative, sarà necessario superare le abitudini al mecenatismo e imparare a lavorare insieme per la costruzione di progetti che valorizzino le diverse competenze e i differenti sguardi, per arrivare a un ambizioso obiettivo comune: raccontare meglio l’impresa e, dunque, le qualità dell’Italia. In nome di una “economia giusta” e di un più equilibrato sviluppo sostenibile, ambientale e sociale.