Quando due bambini ucraini sono arrivati nella classe dell’asilo genovese frequentato da sua figlia, a Carmine Recchiuto è parso che i bambini fossero in difficoltà, le maestre pure, e gli è venuta un’idea. Recchiuto è un 38enne ricercatore in robotica all’Università di Genova dove, insieme al professor Antonio Sgorbissa e a un gruppo di giovani colleghi del Dibris, dipartimento di Informatica, bioingegneria, robotica e ingegneria dei sistemi dell’ateneo genovese, ha progettato e realizzato l’intelligenza artificiale alla base del progetto Caresses, in cui un robot umanoide riusciva ad adeguare il proprio comportamento alla persona che aveva di fronte, alla sua cultura, età, ai suoi gusti, e a fare compagnia agli anziani ospiti delle case di cura Advinia HealthCare, in Inghilterra, e nella rete di residenze Hisuisui, in Giappone. Dopo quell’esperienza, che un’indagine Enel-Fondazione Symbola ha annoverato tra le cento meraviglie della robotica italiana, il robot ha spostato la sua attenzione sui giovani. Il primo test, appena concluso, è stato su un gruppo di 300 alunni di prima e seconda media Parini-Merello di Genova. «Una scuola ideale per le sue dimensioni, perché il nostro esperimento aveva bisogno di tante persone», spiega Recchiuto. L’esperimento, progettato da una dottoranda 26enne albeva di Recchiuto e Sgorbis sa, Lucrezia Grassi, ha messo Pepper alla prova in aula. Pepper è il robot costruito dall’azienda franco-giapponese Softbank, ma dotato di un’intelligenza artificiale nata nei laboratori del Dibris, e già protagonista di Caresses. Alla Parini-Merello, durante un lungo esperimento cominciato a metà novembre e finito pochi giorni fa, ha avuto a disposizione l’aula informatica dove a turni di mezz’ora incontrava quattro alla volta i 300 alunni. «Scopo del progetto è stato dimostrare la capacità di Pepper di interagire con più persone insieme. Può sembrare strano, ma è una capacità ancora poco sviluppata e poco affrontata dalla letteratura scientifica. Lucrezia ha definito una strategia che consente al robot non solo di associare la voce al nome, ma anche di far parlare tutti. Se qualcuno è più estroverso e parla tanto, cerca di coinvolgere anche gli altri», dice Recchiuto. Il robot parla di hobby, sport, musica, film. È programmato per adattarsi al suo interlocutore. Mentre parla, ascolta, impara le preferenze di chi ha di fronte e si comporta di conseguenza, evitando schemi e pregiudizi. Se ha davanti, come in questo caso, ragazzini italiani può assumere che gli piacciano il calcio e la pizza, ma può scoprire, nella conversazione, che qualcuno preferisce il sumo e il sushi, e adeguarsi. Luisa Giordani, dirigente scolastica della Parini-Merello, vuole continuare il progetto. «Ho visto ragazzi con caratteristiche particolari, e che normalmente parlano molto poco, parlare per mezz’ora con Pepper», spiega. In un’epoca in cui ChatGpt, un software che conversa con gli utenti attraverso una chat, preoccupa gli insegnanti di mezzo mondo per la sua capacità di rispondere a domande odi scrivere un tema, e in cui il ministro italiano dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, vieta i telefonini in classe e forse perde l’occasione di fare del telefonino uno strumento di apprendimento, ci sono scuole che abbracciano la tecnologia. «Non è ne buona né cattiva, va conosciuta senza pregiudizi. Continueremo a lavorare in aula con i robot, per insegnare ai nostri alunni che dietro a ciascuno di loro c’è un’intelligenza che qualcuno ha programmato e deve tenere aggiornata», racconta Giordani. Recchiuto intanto, stimolato dall’esperienza di sua figlia, ha scritto un progetto con Alessia Bartolini, professore di Pedagogia interculturale all’Università di Perugia. «Ad ogni lingua corrispondono una cultura, delle abitudini, anche dei giochi diversi. Il robot può essere programmato per adattarsi a queste diversità, e può diventare un veicolo di integrazione».