Tutto vero, naturalmente. Ancora oggi. Ma parziale. Perché, senza nulla togliere all’intelligenza lungimirante di un «venerato maestro», vale la pena di parlare anche di «un Paese con». Un Paese, cioè, con sorprendenti capacità di crescita dopo le crisi determinate dalla pandemia e poi dalla rottura degli equilibri internazionali con la guerra in Ucraina. Con una straordinaria vitalità economica e sociale. E con una robusta inclinazione alla sostenibilità, ambientale e sociale, che le nostre imprese considerano un vero e proprio asset di competitività, che le pone all’avanguardia in Europa. La conferma sta in un dato: un aumento del PIL del 10,9% tra 2021 e 2022, il migliore nell’area del G7, come non succedeva dai tempi del boom degli anni Cinquanta e Sessanta. Non un semplice “rimbalzo” dopo il crollo del 2020, l’anno del Covid e dei lockdown, ma una vera e propria crescita, con caratteristiche di forza strutturale della nostra economia. Una spinta determinata in gran parte dall’industria manifatturiera e dall’export e, nel 2022, anche dai servizi (a cominciare dal turismo) e dalle costruzioni. Un dinamismo che si ripercuote positivamente anche sul 2023, con il Fondo monetario internazionale che prevede una crescita italiana dello 0,6% e la Commissione europea che annuncia lo 0,8 per cento. Non molto, naturalmente, ma comunque meglio delle aspettative di recessione. È un Paese complesso, l’Italia. Irriducibile ai semplicistici paradigmi dell’area critica e del mancato sviluppo. Senza perdere di vista i punti di debolezza, i disagi sociali e i ritardi politici sul terreno delle riforme utili alla modernizzazione, vale la pena di fermare l’attenzione su quel che funziona, concentrandosi sul mondo dell’impresa, fattore essenziale di sviluppo.
Le imprese, infatti, hanno investito, retto le sfide dei mercati globali e della ricomposizione delle catene del valore, innovato prodotti e processi grazie all’uso dell’intelligenza artificiale e ai criteri di gestione data driven, creato lavoro e valore (profitti per gli azionisti, andamenti di Borsa per gli investitori) con una sapiente strategia che in molti casi ha fatto leva sui valori sociali, sul benessere diffuso, sulla sostenibilità (ne fanno fede le posizioni di vertice di grandi aziende italiane nel Dow Jones Sustainability Index e nel Sustainability Yearbook 2023 di S&P Global o i ben documentati rapporti di Symbola sulla green economy). Un dato esemplare sulla crescita: nel 2022 l’industria manifatturiera, secondo il Rapporto Prometeia Intesa San Paolo, ha avuto ricavi per 1.200 miliardi, con un aumento di 164 miliardi rispetto all’anno precedente, anche grazie all’export che supera i 600 miliardi, con l’elettronica, il sistema moda e la farmaceutica a fare da traino. Di cosa parliamo, allora, quando cerchiamo di raccontare il nostro Paese? Il ritratto è ambivalente e contrastato. Ci sono, diffuse, le incertezza, le paure, le preoccupazioni per le bollette dell’energia, l’inflazione, le difficoltà per il lavoro e il reddito, l’insieme delle ombre che fanno temere agli economisti di essere entrati in quella che Nouriel Roubini, economista famoso per la capacità di prevedere le crisi, chiama «l’era della grande stagflazione»: l’intreccio tra inflazione e stagnazione economica, la palude in cui l’economia non cresce e i prezzi aumentano, aggravando così l’impoverimento diffuso. Aria di crisi, dunque? Certo. A patto, però, di considerare il reale significato della parola “crisi”, che condensa sia i segni del pericolo che quelli delle opportunità. In sintesi: un’Italia che, nonostante tutto, vuole recuperare fiducia. In un futuro possibile, soprattutto per quel che riguarda le nuove generazioni. Partiamo dalla malinconia, allora, dalla parola chiave del 560 rapporto del Censis sulla situazione sociale, da gran tempo il termometro migliore degli umori e delle tendenze degli italiani (altri osservatori e investigatori sociali, sui media, parlano di «risacca», «nostalgia» o perfino di «vita agra», rispolverando le suggestioni di un grande scrittore come Luciano Bianciardi).
Malinconia come «sentimento proprio del nichilismo dei nostri tempi». Sono malinconici soprattutto i lavoratori dipendenti e i pensionati (sempre più infastiditi dal dover sopportare gran parte del carico fiscale per finanziare servizi pubblici e welfare di tutti gli altri italiani, evasori fiscali compresi), ma anche gli imprenditori seri e i lavoratori autonomi che non evadono le regole e il fisco. Il nucleo del “ceto medio” impoverito e in difficoltà, l’asse portante del capitale sociale positivo e, naturalmente, della stessa democrazia. Secondo il Censis, l’89,7% degli italiani prova «tristezza» dopo Covid, guerra e crisi ambientale, i159% teme che la guerra in Ucraina porti all’uso della bomba atomica, il 58% si sente stanco per l’uso continuo dei dispositivi digitali, mentre l’85% delle donne pensa che la violenza contro di loro sia aumentata. Non sembra che si sia “sull’orlo di una crisi di nervi” né è più dominante quel «rancore» che aveva segnato i rapporti Censis degli anni precedenti. C’è semmai una «ritrazione silenziosa» rispetto ai valori e ai legami sociali (come conferma anche il fatto che un italiano su due non vada più a votare). E prevale un disincanto per i miti della demagogia populista e della comunicazione di massa sulla bella vita: l’83% non è disposto a «fare sacrifici per seguire gli influencen (ben venga finalmente il loro tramonto…),1’81% rifiuta i sacrifici «per seguire la moda» e il 63,5% quelli per «sembrare più giovani». Meno apparenza, più sostanza, proprio in tempi di crisi, sembra dire la stragrande maggioranza degli italiani. Meno chiacchiere, più scelte politiche, culturali ed economiche serie e responsabili. Che si sia alle soglie, proprio grazie alla crisi, di una straordinaria svolta di consapevolezza per la qualità di vita, lavoro, futuro? Si può sperare. Malinconia, d’altronde, non vuol dire depressione.
Né angoscia. Semmai, indica un disagio che si intende superare. Una malinconia non incompatibile con la speranza. Guardiamoli, allora, i dati sulla speranza. Cominciando proprio con quell’incremento biennale del Pil di quasi l’u% di cui abbiamo detto all’inizio. «La rivincita del modello italiano: industria 4.0 innovativa e digitale, filiere produttive corte, diversificazione dei prodotti: ecco le ragioni che fanno volare l’export. L’economia nazionale degli ultimi 6 o 7 anni non è più quella che ha stentato sino a12015», sostiene Marco Fortis, spiegando come gli imprenditori, dopo la Grande crisi del 2008, abbiano saputo usare con intelligenza e intraprendenza gli stimoli fiscali del Piano Industria 4.0 per investire in macchinari, transizione digitale, innovazioni di processo e di prodotto, export, qualità, per rafforzare la loro produttività e guidare così la crescita del Paese. E questo nonostante le strozzature dello sviluppo: le carenze di mano d’opera e la sua bassa qualificazione (abbiamo appena il 2o% di laureati tra gli italiani tra i 25 e i 64 anni contro il 32,8% della media Ue), le pesantezze fiscali, le lentezze burocratiche e amministrative, la scarsa qualità delle infrastrutture materiali e immateriali, un clima generale anti-impresa. La nostra industria, insomma, nonostante condizioni avverse, è stata motore di sviluppo. E ha stimolato tutti i servizi collegati: logistica, ricerca, finanza, ecc. Confermando i primati manifatturieri italiani in Europa e nel mondo.
Nel caos degli scambi internazionali e dei nuovi assetti della “riglobalizzazione selettiva”, molto più carichi di tensioni e conflitti, in stagioni complesse di reshoring (si torna a produrre nel cuore dell’Europa industriale) e di twin transition, ambientale e digitale, le imprese italiane si rafforzano, sono uno straordinario capitale sociale. L’obiettivo cui guardano le imprese italiane è quello di una maggiore e migliore integrazione europea, per costruire sviluppo sostenibile a vantaggio della Next Generation Eu. Consapevoli come sono che crescita economica, coesione sociale e difesa della democrazia liberale il grande patrimonio europeo, appunto hanno un futuro solo se strettamente intrecciati, in un sistema di valori e scelte politiche coraggiose. L’Europa si trova nel cuore di un passaggio cruciale per l’economia globale. C’è una «globalizzazione da ripensare», come suggerisce con insistenza «The Economist». Ci sono da fronteggiare le chiusure della Cina, che privilegia il mercato interno e le insidiose scelte della Casa Bianca di Biden, che ha messo in moto investimenti pubblici per centinaia di miliardi di dollari con l’Inflation Reduction Act e con il Chips and Science Act a sostegno dell’impresa americana e di tutte le altre imprese internazionali che vorranno insediarsi negli Stati Uniti. E se va evitata, naturalmente, una guerra commerciale tra Europa e Stati Uniti (anche per gli effetti politici che comporterebbe, in un quadro geopolitico di forti tensioni e allarmanti fratture), è necessario contemporaneamente difendere l’industria europea da rischi di crisi e declino.