Realacci: «Sostenibilità, una sfida inevitabile» Q nella della sostenibilità è una sfida alla quale non ci si può più sottrarre, pena il rimanere irrimediabilmente indietro. Molte aziende del Bel Paese lo sanno bene, motori di un cambiamento che spesso non viene adeguatamente supportato da politiche altrettanto lungimiranti, che riescano a considerare la transizione ecologica come un’occasione economicamente vantaggiosa. «Eppure le aziende che fanno investimenti green vanno meglio: innovano di più, esportano di più e producono più posti di lavoro», spiega Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola, ambientalista nel dna, tra i fondatori di Legambiente e del Kyoto Club, che presiede il Comitato Scientifico del Festival della Green Economy. Un’occasione per fare il punto sul tema con molte delle eccellenze del nostro tessuto industriale che hanno ben chiaro quanto la sostenibilità giochi oggi un ruolo fondamentale. «La partita della green economy è un’occasione per mostrare come l’Italia vuole affrontare il futuro recuperando però le nostre radici. Per dirla con Mahler: la tradizione non è culto delle ceneri ma custodia del fuoco». Realacci, com’è andato quest’ultimo anno sul fronte della sostenibilità, vista la congiuntura storica delicata con la guerra, l’aumento dei costi e le stagioni sempre più siccitose? «Anche quest’anno è stata confermata una cosa che chi evita di guardare l’Italia solo con le lenti delle agenzie di rating o dell’economia “ufficiale” sa da tempo, cioè che l’Italia è molto più forte di quanto si creda. E i settori in cui il nostro Paese va meglio sono quelli in cui il “saper fare italiano” incrocia la qualità, la sostenibilità, la bellezza, l’innovazione. Per esempio siamo il terzo Paese al mondo per export nel settore dei mobili e, nello stesso tempo, siamo anche quelli che consumano meno energia, meno acqua e recuperano più legno. Questo proprio per via del dna insito nel nostro saper fare, che tende ad essere efficiente per l’antica penuria di materie prime con cui si è sempre dovuto confrontare. A questo si unisce il fatto che alle aziende questo approccio conviene, perché chi fa investimenti green, come il recupero di materiali, il risparmio energetico, le fonti rinnovabili, le innovazioni di processo e di prodotto, la diminuzione dei consumi d’acqua nel campo manifatturiero più del 40% delle imprese negli ultimi cinque anni va meglio. E la percezione di questo spinge molto più che la politica. Lo sanno bene molte aziende parmensi come Chiesi e D avines». La crisi energetica poteva essere un’occasione per investire sulle energie rinnovabili? Quali sono i freni per le aziende? «Nel campo dell’energia il limite per le aziende è nella burocrazia e nelle scelte che sono state fatte nel passato. Siamo ancora piazzati bene grazie anche all’idroelettrico, ma se pensiamo che negli ultimi anni l’Olanda che per capirci è grande quanto Calabria e Sicilia messe insieme e ha molto meno sole ha installato 3mila megawatt di pannelli fotovoltaici, mentre l’Italia meno di mille, è chiaro che abbiamo un problema. Anche perché oggi le rinnovabili costano meno delle altre fonti di energia e ci rendono più liberi. L’Italia si è bloccata sulla percentuale di rinnovabili in campo elettrico al periodo 2013-2014, ma le aziende elettriche del settore affermano di essere in grado di installare entro il 2030 ben 80 mila megawatt nuovi, se avessero la possibilità di farlo». Quanto le aziende si stanno muovendo verso la transizione ecologica? Deriva anche dall’aver capito l’importanza in termini economici? Direi proprio di sì, tanto che nel quinquennio 2017-2021, secondo il 13° rapporto Greenitaly presentato da Fondazione Symbola e Unioncamere, sono oltre 531mila le aziende che hanno investito in tecnologie e prodotti green, ben il 51% in più rispetto alla rilevazione precedente (2014-2018). Condivido da sempre quanto disse Alexander Langer, uno degli ambientalisti più acuti che l’Italia abbia avuto: “La conversione ecologica si affermerà quando sarà percepita come socialmente desiderabile”. Un’occasione per migliorare la propria vita, produrre nuovo lavoro e difendere le persone e le comunità. Questo momento è giunto. Oggi è evidente che chi si attarda corre il rischio di perdere terreno, proprio in campo economico». E oggi sono gli stessi consumatori a preferire prodotti sostenibili? «È curioso notare come, guardando alla ricerca che sta realizzando Fondazione Symbola con Ipsos, siano cambiati i driver che guidano le scelte dei consumatori verso la sostenibilità. Oltre alla motivazione etica, legata alla propensione a rispettare l’ambiente, che contribuisce per circa il 6,5%, gioca un ruolo importante la paura per i cambiamenti climatici e il futuro del pianeta (37%), ma il driver principale è soprattutto la qualità, con il 56,5%, cioè la convinzione largamente diffusa che un prodotto sostenibile sia significativamente migliore degli altri. Questo fa anche capire perché istintivamente tante imprese si muovono in quella direzione, lo fanno sicuramente per marketing ma perché percepiscono che nelle persone è scattata questa dinamica». Su molti dei temi affrontati dal legislatore europeo, ad esempio per il settore dell’automotive, una delle critiche più diffuse è che si partirebbe da scelte ideologiche senza considerare le specificità di un Paese. È d’accordo oppure crede si tratti di retorica? «L’automotive è un settore in cui si perderanno dei mestieri nell’arco della transizione, però che la transizione stessa possa essere evitata è impensabile. Se ci sono delle soluzioni migliori che vengano proposte, discusse, ma bisogna essere seri, assumendo posizioni semplicemente di blocco si rischia di rimanere indietro. Ricordo quanto è accaduto con le marmitte catalitiche. La resistenza delle nostre imprese ci ha poi costretto ad acquistarle all’estero. O all’occasione persa con i personal computer, il cui primo esemplare fu prodotto dall’Olivetti. Ad esempio credo che la richiesta europea di efficientare le case dal punto di vista energetico sia giusta e se si fossero utilizzate bene le risorse del 110% saremmo più avanti. Anche qui la sostenibilità conviene, non solo in termini ambientali e di occupazione, ma in termini di bollette meno care e di aumento del valore immobiliare. Come Europa possiamo avvantaggiarci della transizione verde: far valere il nostro peso, grazie ai muscoli economici di uno dei mercati più grandi del mondo, dando attuazione alla Carbon border adjustment mechanism (Cbam), che permetterà di proteggere l’industria europea in fase di decarbonizzazione da quei competitor esterni che non sono soggetti agli stessi obiettivi climatici dell’Unione. Bisogna agire senza lasciare indietro nessuno, senza lasciare solo nessuno. Dipende anche da noi. Per dirla con Sant’Agostino “sono tempi cattivi, dicono gli uomini. Vivano bene i tempi e i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi». Presidente Ermete Realacci è presidente della Fondazione Symbola, ambientalista nel dna, tra i fondatori di Legamgambiente e del Kyoto Club, che presiede il Comitato Scientifico del Festival della Green Economy. Fra i consumatori è diffusa la convinzione che un prodotto sostenibile sia anche di qualità più alta. 1MP Le imprese che fanno investimenti green vanno meglio.