Realizzato in collaborazione con Aurora Magni, presidente Blumine/sustainability-lab e docente incaricato presso la LIUC – Università Cattaneo per l’insegnamento di Sostenibilità dei processi produttivi. Giornalista, ha in attivo diverse pubblicazioni sul tema della sostenibilità ed è responsabile del blog www. sustainability-lab dedicato all’innovazione green nell’industria tessile e della moda. È co-autrice del volume ‘Neo materiali nell’economia circolare. Moda’, (2017) a cura di Marco Ricchetti per Edizioni Ambiente.
Questo contributo fa parte del decimo rapporto GreenItaly, realizzato da Fondazione Symbola e Unioncamere, in collaborazione con CONAI, Novamont e Ecopneus.
L’emergenza Covid-19 ha segnato duramente lo stato di salute dell’industria tessile e della moda che in Italia ha registrato un calo di fatturato valutabile intorno al 30% sul 2019 .
Ha però evidenziato anche l’innata resilienza del comparto che fin dalle prime settimane di lockdown ha saputo riorganizzare la propria produzione per rispondere alla domanda di abbigliamento protettivo e mascherine per personale sanitario e privati cittadini. Possiamo quindi indicare due fattori che hanno contraddistinto le strategie dell’industria della moda nell’ultimo anno.
Se la pandemia ha rappresentato uno stimolo ad incrementare a riconvertire la produzione tradizionale allo scopo di realizzare DPI (dispositivi di protezione individuale), dall’altro crollo dei consumi e difficoltà dell’intero sistema industriale non hanno provocato un calo di attenzione verso i temi della sostenibilità riconosciuta come una strategia di competitività irrinunciabile: che i tratti di materiali biologici o riciclati, di certificazioni, di macchinari più efficienti, addirittura di riflessioni globali sul sistema moda.
Soffermiamoci brevemente sugli effetti del Covid-19 sul sistema industriale e sulle strategie del comparto ben consapevoli che la produzione di mascherine o una donazione non necessariamente comportino l’adozione di pratiche green. Certo la pandemia è stata più di una fase di rallentamento dei consumi e del business se è vero che grandi protagonisti della moda globale hanno ribadito in più occasioni la necessità di ‘rallentare’, ‘concentrarsi sulla qualità anziché sulla quantità dei capi prodotti, ridimensionare gli sprechi e gli effetti spettacolari delle sfilate’. Difficile dire se questo nuovo trend culturale modificherà il modo stesso di fare e comunicare la moda e se ridimensionerà il fast fashion, certo è una riflessione che avvicina ulteriormente il comparto ai temi della sostenibilità.
Il Covid e la gara di solidarietà
In questi mesi la stampa ha dato il giusto rilievo alla gara di solidarietà intrapresa da brand ed imprese con donazioni a ospedali e alla protezione civile e non sono mancate azioni di riconversione produttiva di impianti per fornire – in molti casi gratuitamente – le necessarie mascherine, un clima di impegno collettivo solo in parte offuscato da episodi di speculazione evidenziati dalla cronaca. L’esperienza vissuta durante il lockdown ha inoltre posto con forza la necessità di proteggere le risorse senza le quali l’azienda non può sopravvivere, in particolare i dipendenti e i partner della catena del valore, consolidando così la fiducia degli stakeholder. Modificare le linee produttive, sperimentare lo smartworking e le fiere digitali, significa infatti dare priorità alle condizioni di sicurezza, un’esperienza che avrà ricadute culturali sui modelli di business e sulle relazioni aziendali.
La produzione di DPI ha rappresentato la priorità nei mesi bui della pandemia, a partire dalle iniziative istituzionali come il protocollo di intesa tra Confindustria Moda e Cna Federmoda, redatto dallo Sportello Amianto Nazionale e finalizzato a mettere in rete e coordinare le imprese impegnate su questo fronte o desiderose di rendersi idonee allo scopo. Iniziative di attivazione di reti di imprese e di semplificazioni degli iter di autorizzazione sono inoltre state attivate da sedi provinciali delle varie associazioni di rappresentanza imprenditoriale.
La necessità di fornire DPI a personale sanitario, operatori esposti a contagio e privati cittadini ha in ogni caso posto le imprese di fronte al problema di conformare i propri prodotti alle indicazioni ministeriali (deroga all’obbligo di certificazione CE ma rispetto di un iter di validazione della capacità protettiva dei tessuti presso laboratori autorizzati) allo scopo di garantirne l’ efficacia e ove possibile caratteristiche di sostenibilità. Occorre infatti tenere presente che la funzione barriera della mascherina o di un camice sanitario è data dalle caratteristiche di idrorepellenza, traspirabilità, antibattericità del materiale ottenute mediante trattamento chimico. È importante ricordare al riguardo – come già evidenziato nelle precedenti edizioni di GreenItaly – che un numero crescente di marchi della moda e di imprese della filiera tessile ha utilizzato i sistemi di certificazione ambientale, sottoscritto protocolli collettivi per la riduzione/ eliminazione delle sostanze chimiche tossiche dai propri processi (quali ZDHC, HIGG Index, AFirm) e in molti casi ha redatto proprie RSL (Restricted Substances List) per allineare la supply chain agli obiettivi stabiliti. Un tema di grande attualità quando si parla di tessuti barriera poiché la funzionalizzazione è solitamente ottenuta con composti fluorurati che attribuiscono idrorepellenza alla superficie ma sono da tempo riconosciuti come contaminanti ambientali pericolosi per la salute umana. Le attività di ricerca intraprese da molte aziende in prima linea durante la pandemia hanno avuto quindi anche l’obiettivo di abbinare l’efficacia del prodotto al mantenimento degli impegni di sicurezza chimica assunti presso i propri stakeholders. Un obiettivo che nei mesi bui del Covid ha rischiato di passare in secondo ordine ma a maggior ragione interessante soprattutto se i risultati ottenuti saranno capitalizzati nelle successive attività aziendali.
È oggettivamente difficile dare rendiconto di ogni impresa impegnata nella direzione descritta (a giugno 2020 risultavano essere oltre 400 le aziende autorizzate dall’Istituto Superiore di Sanità a realizzare mascherine e dpi) e ci scusiamo con gli esclusi.
Ci soffermeremo su alcune esperienze in cui è stato possibile cogliere il contenuto di innovazione sostenibile attraverso l’adozione di soluzioni tecnologiche volte a funzionalizzare i prodotti.
In alcuni casi l’attività dell’azienda è stata in primo luogo quella di selezionare e scegliere le soluzioni innovative brevettate in grado di attribuire ai tessuti le migliore performance. È il caso di Albini Group (Albino-BG) che ha lanciato Viroformula, un tessuto utilizzato per DPI ma anche per abbigliamento quotidiano che sfrutta l’efficacia di un trattamento sviluppato dalla svizzera HeiQ che unisce l’azione antimicrobica dell’argento alla tecnologia della vescicola grassa (liposomi), che distrugge i virus esaurendo la membrana virale nel suo contenuto di colesterolo. L’azienda ha inoltre recentemente lanciato Albini Next, un innovation hub situato all’interno del cluster tecnologico Kilometro Rosso con la finalità di individuare materiali sostenibili e nuovi processi produttivi.
La tecnologia HeiQ è stata scelta anche da Pompea che nelle sue mascherine la abbina ai filati antibatterici grazie alla presenza di ioni di argento sviluppati da Fulgar (entrambe mantovane). Il Calzificio DèPio (Brescia) ha invece puntato su maschere in tessuto di cotone idrorepellente certificato GOTS -Global Organic Textile Stndard e Oeko- Tex e dotate nella parte interna di poliammide e rame batteriostatico. La ricerca sul grafene nei processi tecnici ha invece orientato la comasca Directa Plus a realizzare una mascherina che presenta una tasca in cui può essere inserito un filtro ottenuto attraverso un coating totale di grafene per una capacità di filtrare i batteri pari al 95% e una durata di 16 ore. Il Gruppo Marzotto (Valdagno,VI) ha adottato una soluzione antivirale brevettata dalla società svedese Polygene, leader nel settore biomedicale. Sviluppata contro l’aviaria e la Sars è in grado di ridurre in brevissimo tempo oltre il 95% del Covid-19 presente sulle superfici dei tessuti che possono inoltre essere lavati e riutilizzati. L’obiettivo dell’azienda è ora testarne la capacità antibatterica su diversi tipi di tessuto, comprese le fibre naturali quali la lana, il lino e il cotone.
Argar (Magnago, MI) ha sviluppato la linea di tessuti AVirTex abbinando idrorepellenza e funzionalità antivirale e antimicrobica mediante trattamento Viroblock resistente anche dopo numerosi lavaggi, come dimostrato tramite test comparativi di analisi attività antibatterica ISO 20743. Da Bergamo, una delle province più martoriate dal coronavirus, arriva l’iniziativa Molamia (che in bergamasco significa non mollare) che coordinata da Confindustria Bergamo ha dato vita ad una rete di imprese per la produzione di mascherine e camici donati agli ospedali locali. Tra queste la filiera formata dal produttore di fibre man made e tessuti non tessuti RadiciGroup (Gandino), dal Maglificio Santini (Lallio) specializzato nel confezionamento di abbigliamento per ciclisti) e da Plastik (Albano Sant’Alessandro) incaricato della funzionalizzazione dei materiali.
Come detto il covid19 ha accelerato processi di riconversione industriali consentendo ad alcune imprese di rivedere in parte i propri modelli di business e i propri ambiti di specializzazione Mimoska ( San Giorgio su Legnano-MI) in collaborazione con C. Sandroni & C. di Busto Arsizio (VA) – a quest’ultima va riconosciuto il merito di aver realizzato un blog che ha costantemente messo a disposizione delle imprese dati e informazioni utili a realizzare DPI efficaci e in regola con le indicazioni dell’ISS – ha realizzato mascherine in cotone ad alta capacità di filtrazione, lavabili senza rischio di rilasciare microplastiche e riciclabili.
Dai DPI all’abbigliamento da città in grado di proteggere dai contagi. Con Esemplare, brand della torinese Pattern, si testano sistemi di protezione integrati formati da un capo d’abbigliamento. Il capo presenta un cappuccio entro il quale è inserito un sistema di filtrazione, passamontagna e mascherine integrate. Il materiale – certificato 100 OEKO_TEX – è testato per le sue proprietà antibatteriche ed è una barriera efficace per smog, fumo, polline e acari. L’azienda sottolinea che ogni singola fase del ciclo di produzione dei capi è strettamente monitorata per ridurre l’uso di acqua, energia, prodotti chimici e rifiuti.
Degni di citazione anche i processi di riconversione adottati da alcune imprese meccanotessili produttrici di macchine che durante la pandemia hanno modificato le proprie tecnologie per realizzare direttamente mascherineLa pavese Comez, ad esempio, è un’azienda leader nella tecnologia delle macchine per la produzione di tessuti stretti (pizzi, nastri, bande) destinati alla moda, alla passamaneria ai tessili tecnici. Fin dall’inizio dell’emergenza ha sviluppato una speciale configurazione delle macchine elettroniche per consentire la produzione di mascherine. Il prodotto finito richiede solo taglio e plissettatura per completare la confezione. Un’altra soluzione sviluppata per produrre mascherine protettive, consiste nell’ inserire gli elastici su un tessuto in TNT (Tessuto Non Tessuto) che viene elasticizzato direttamente sulla macchina, un processo che consente risparmio di materia prima ed energia. Esperienza simile per bierrebi Italia, che raccogliendo le richieste di DPI, ha saputo adattare una delle sue macchine per il taglio di TNT per velocizzare la produzione.
Naturalmente non sono mancate le mascherine prodotte da soggetti impegnati a vario titolo nel sociale come onlus, cooperative di detenuti, iniziative dedicate a favorire l’inclusione di soggetti fragili.
Nel frattempo ha assunto dimensioni importanti il problema della gestione delle mascherine, in particolare in TNT mono uso, una volta giunte a fine vita. L’uso massiccio ha infatti avuto una significativa ricaduta sulla generazione dei volumi di rifiuti: essendo potenzialmente state esposte a contagio non sono riciclabili e devono essere conferite nella frazione indifferenziata. Il dipartimento di Chimica del Politecnico di Milano, il Nucleo Nbcr (Nucleare Biologico Chimico Radiologico) dei Vigili del Fuoco e l’Ospedale Sacco (Milano) hanno avviato uno studio per valutare possibili trattamenti a cui sottoporre mascherine e DPI come tecniche di eliminazione del virus attraverso raggi ultravioletti, ozono o raggi gamma, che però prevedono l’utilizzo di macchinari particolarmente complessi. Approccio diverso per Amazon (Larizzate – Vercelli) che con il supporto della società Eso-Ecological Services Outsourcing di Opera (MI) specializzata in gestione dei rifiuti, ha promosso il Sustainability Day, una giornata dedicata alla raccolta differenziata e al riciclo dei dispositivi di protezione utilizzati dagli addetti del magazzino perché vengano riciclati e utilizzati per realizzare la pavimentazione di parchi gioco per bambini. Se da un lato la durata dei materiali in una logica di economia circolare dipende dal materiale utilizzato e dalla gestione del fine vita, dall’altro chiama in causa le modalità di igienizzazione e sanificazione. Interessante da questo punto di vista il percorso intrapreso da Servizi Italia (Parma) che, con il supporto dei laboratori di testing di Centrocot (Busto Arsizio, VA), ha ottenuto la dichiarazione ambientale di prodotto EPD relativamente a camici e tessuti utilizzati in ambito ospedaliero. L’azienda che con circa 3600 addetti è il principale operatore italiano nel settore dei servizi integrati di noleggio, lavaggio e sterilizzazione di materiali tessili e strumentario chirurgico per le strutture ospedaliere, è la prima a ottenere una certificazione di III tipo per questa tipologia di servizi.
Oltre il coronavirus
Per quanto l’attività delle imprese e l’attenzione degli addetti ai lavori siano state focalizzate per mesi sulla produzione di DPI non sono mancate iniziative orientate a rafforzare i contenuti di sostenibilità della filiera tessile-moda. Possiamo infatti dire che, pur registrando una situazione di palese criticità, il settore appare sempre più orientato a impegnarsi nella riduzione dell’impronta ambientale dei propri prodotti e processi. Occorre infatti lasciare un attimo la pandemia sullo sfondo e ricordare che il 2019 è stato caratterizzato da fatti importanti: la crescente attenzione dell’opinione pubblica sui cambiamenti climatici, le manifestazioni dei giovani che hanno messo sotto i riflettori i comportamenti consumistici ed in particolare il fast fashion e i black friday, giornata settimanalmente dedicata a incentivare gli acquisti. In questo clima è opportuno ricordare l’iniziativa internazionale Fashion Pact lanciata dal patron di di Kering Francois-Henri Pinault su sollecitazione del presidente francese Macron che alla vigilia del G7 dell’agosto 2019, ha dichiarato l’impegno di 32 imprese internazionali della moda e del tessile per arrestare il riscaldamento globale, difendere le biodiversità, salvare gli oceani. Tra i sottoscrittori del Fashion Pact, che ad oggi raggruppa 67 firmatari tra brand e retailer, ricordiamo la presenza di importanti imprese italiane: Bonaveri (Renazzo di Cento, Ferrara), Calzedonia Group (Dossobuono di Villafranza,VR), Diesel (Breganze, VI), Ermenegildo Zegna (Trivero, Biella), Geox (Biadene, TV), Gruppo Armani (Milano), Herno (Lesa, NO), Moncler (Milano), Prada (Milano), Salvatore Ferragamo (Firenze), i brand – oggi del gruppo Kering ma attivi in Italia: Bottega Veneta (Montebello Vicentino, VI), Brioni (Roma), Pomellato (Milano), DoDo (Milano).
Dal canto loro gli enti fieristici – anche nelle edizioni espositive virtuali – hanno intensificato le iniziative orientate a diffondere cultura della sostenibilità.
Anche in questo caso è difficile citare tutte le iniziative intraprese dalle aziende, ci limiteremo a indicare alcuni dei driver di innovazione sostenibile più rappresentativi.
Dalle iniziative spot all’approccio integrato
Stiamo registrando un’evoluzione di strategia almeno da parte delle imprese più strutturate che dalle iniziative su temi specifici (in primis la sicurezza chimica, tema che ha caratterizzato il decennio 2010-20) puntano oggi su approcci a 360gradi documentati da certificazioni ambientali di sistema e bilanci di sostenibilità e che hanno l’economia circolare come fil rouge.
È il caso di Salvatore Ferragamo (Firenze) già citato per la sottoscrizione del Fashion Pact e che nel 2019 ha dato vita al progetto museale “Sustainable Thinking” finalizzato a diffondere la culturala della creatività sostenibile (l’iniziativa si concluderà a gennaio 2021). Il marchio ha recentemente ottenuto la certificazione Silver Si Rating, il primo sistema sviluppato con l’obiettivo di misurare e comunicare correttamente la sostenibilità di un’organizzazione valutandone gli impatti ambientali e sociali delle attività e la governance. Creato dalla società romana ARBalzan il certificato è validato dall’ente internazionale di certificazione Rina ed è basato su un algoritmo che racchiude su un’unica piattaforma tutti gli strumenti internazionalmente riconosciuti dei criteri ESG [69] e i 17 SDGs delle Nazioni Unite contenuti nella Agenda 2030.
Gucci (Firenze) intanto ha presentato il conto economico ambientale 2019 (Environmental Profit & Loss) che indica una riduzione del 21% degli impatti ambientali totali del marchio rispetto all’anno precedente. L’azienda è completamente Carbon Neutral dal 2018: oltre a ridurre le proprie emissioni attraverso processi di ottimizzazione e investimenti in processi innovativi, Gucci ha scelto di compensare annualmente tutte le emissioni di gas serra – GHG (Green House Gas) – generate dalle proprie attività (siti produttivi, uffici, negozi, magazzini) e da quelle dell’intera supply chain. Per quanto riguarda le collezioni il brand punta sull’uso di materie prime riciclate e fibre organiche e per gli accessori e i gioielli sull’utilizzo di metalli preziosi provenienti da fonti di approvvigionamento responsabili. Strategie green anche per quanto riguarda le sfilate, sostenibili già dallo scorso anno seguendo i principi della certificazione ISO 20121. Rilevante inoltre l’impegno sociale rimarcato da donazioni e iniziative di solidarietà.
Approccio a 360 gradi anche per Benetton (Ponzano, Treviso) che dal 2015 ha un comitato di sostenibilità istituito dal consiglio di amministrazione per stimolare e coordinare le iniziative sul fronte dell’impegno ambientale e sociale. L’azienda – tra i primi sottoscrittori della campagna Detox di Greenpeace per l’eliminazione delle sostanze critiche dai processi – ha aderito al progetto ZDHC [70] ed ha adottato l’Higg Index [71]. Molteplici le iniziative in funzione dell’economia circolare: dalla riduzione di scarti e seconde scelte ai progetti B-long e B Care per allungare la vita dei prodotti migliorando le performance qualitative dei materiali e le modalità di manutenzione. Nel 2020 inoltre entrerà nella fase più operativa il progetto B-Green, finalizzato a sperimentare un modello di negozio improntato alla sostenibilità e caratterizzato dall’uso di materiali innovativi, dalla trasformazione delle vetrine in ambienti digitali e dall’aumento dell’efficienza energetica. Per quanto riguarda i materiali, Benetton conferma la volontà di incrementare la percentuale di cotone sostenibile (biologico, riciclato e BCI) nelle collezioni per raggiungere il 100% entro il 2025. Secondo il Fashion Transparency Index, lo studio pubblicato da Fashion Revolution che analizza il livello di trasparenza di 200 grandi marchi e retailer di abbigliamento, United Colors of Benetton è uno dei brand che si impegna di più nel divulgare informazioni sulla propria catena di fornitura.
Interessante il percorso di Herno (Lesa, Novara) che da alcuno anni ha avviato progetti ispirati all’ecodesign validandone l’impatto ambientale grazie all’applicazione della metodologia Pef-Product environmental footprint. Le nuove collezioni presentano tessuti in lana riciclata e in poliammide riciclata e in grado di biodegradarsi più rapidamente rispetto a quella convenzionale (cinque anni anziché cinquanta).
Diesel (Breganze, VI) ha avviato una collaborazione con l’agenzia Eco-Age, guidata da Livia Firth, che si articola in un ampio progetto che guarda all’ambiente, al sociale e alla cultura in ottica responsabile. In questo contesto è nata una special capsule in chiave upcycling Be the Alternative che privilegia materiali a basso impatto ottenuti dalla collaborazione con le imprese della propria supply chain.
Reda 1865 (Valdilana Biella), impresa già certificata Emas, è stata la prima impresa tessile ad ottenere la certificazione B Corporation, il più avanzato standard a livello internazionale volto a misurare gli impatti economici, ambientali e sociali delle aziende. Nel 2019 ha inoltre sottoposto ad analisi del ciclo di vita (LCA) i propri processi produttivi ottenendo l’EPD (Dichiarazione Ambientale di Prodotto).
Certificazione B Corp anche per Save The Duck (Milano), brand italiano di piumini 100% animal free che nel 2019 è stato nominato azienda dell’anno dall’associazione animalista PETA Usa. Tra gli obiettivi dell’azienda utilizzare solo cotone certificato BCI entro il 2025 e tessuti 100% PFC-free. L’azienda intende inoltre incrementare la percentuale di materiale riciclato e sta lavorando al progetto pilota “Moda Democratica” con l’obiettivo di recuperare i capi a fine vita e donarli ad associazioni di volontariato.
Sublitex, (Alba, Cuneo) è un’azienda del Gruppo Miroglio che produce carte e film per stampa transfer . Ha sviluppato una linea di tessuti tecnici in poliestere riciclato, stampati con la tecnologia transfer in modo completamente Water free che consente una riduzione dei consumi idrici dell’85%. Grazie all’ installazione di un combustore termico rigenerativo, è in grado di eliminare le sostanze nocive contenute nei fumi di stampa, ottimizzando i consumi e riducendo le emissioni. La stampa in rotocalco è effettuata con inchiostri a base di etanolo – una sostanza naturale – e tutti gli inchiostri utilizzati vengono interamente riciclati. L’azienda, dal 2020 è partner ufficiale del sistema Bluesign, si è dotata di un sistema certificativo integrato, essendo accreditata ISO 9001, ISO 14001 per la gestione ambientale e OHSAS 18001 per la salute e la sicurezza degli addetti. Il brand Dondup (Fossombrone, Pesaro/Urbino), realizza capi grazie ad una filiera produttiva interamente italiana e tracciati mediante speciali etichette che informano il clienti in merito ai contenuti di sostenibilità. In particolare la collezione D/Zero realizzata in tessuto denim ha consentito di risparmiare l’85% di acqua, il 27% di energia elettrica e il 25% di prodotti chimici.
Azienda di Frosinone specializzata nella produzione di tessili tecnici, Klopman ha ottenuto la conferma del livello 3, il più alto in assoluto, della certificazione ambientale di sistema STeP by Oeko-Tex. Nel bilancio di sostenibilità presentato a fine 2019 si leggono inoltre risultati importanti in termini di performance ambientali. I consumi di elettricità e di acqua si sono infatti ridotti rispettivamente del 17% e del 12% in un anno, il 99% dei rifiuti è stato gestito in maniera sostenibile attraverso procedure di recupero, riuso e riciclo e si registra un aumento rilevante della produzione di tessuti realizzati con materiali ecologici quintuplicata in 3 anni a conferma della crescente sensibilità del mercato. Sempre in area tessili tecnici ricordiamo il percorso di sostenibilità di Alfredo Grassi (Lonate Pozzolo, Varese) impresa specializzata nella produzione di abbigliamento protettivo e che negli anni ha ottenuto le più importanti certificazioni ambientali (da Oeko-Tex a Cradle to Cradle, dalla Iso 14001 a SteP by Oeko-tex). Il punto di forza dell’azienda è la ricerca innovativa focalizzata sulla realizzazione di capi in grado di proteggere i lavoratori maggiormente esposti a rischi professionali e coerente con i criteri ambientali minimi della Pubblica amministrazione. Numerose inoltre le iniziative intraprese per diffondere pratiche sostenibili nel modello di business. Tra le più recenti ricordiamo la collaborazione con Humana people to people con la donazione di circa 17 mila kg di capi d’abbigliamento, la collaborazione con il progetto Quid (Verona) che realizza linee fashion valorizzando tessuti second life e adottando politiche di inclusione sociale di donne svantaggiate e con la cooperativa sociale Extraliberi che coinvolge detenuti del carcere Lorusso e Cutugno di Torino in attività lavorative. Incontra inoltre un crescente successo la start up Gr10k attiva all’interno della sede produttiva con l’obiettivo di creare collezioni fashion partendo da capi e tessuti destinati allo smaltimento.
Stamperia Olonia (Gorla Minore, Varese) ha alle spalle una lunga storia di impegno sostenibile: la certificazione Iso 14001 risale infatti a 15 anni fa. L ‘azienda ha in particolare posto al centro della sua strategia la sicurezza chimica e l’eliminazione di sostanze critiche dai processi di lavorazione come dimostrano le certificazioni internazionali Oeko-tex e GOTS e la recente adesione al progetto ZDHC. La produzione è completamente formaldeide free e le resine utilizzate sono a bassissimo contenuto di VOC.
Approccio a 360 gradi anche per il maglificio Brugnoli Giovanni di Busto Arsizio (Va) che negli anni ha puntato su energie rinnovabili e sullo sviluppo di prodotti a basso impatto ambientale. In particolare l’azienda ha brevettato la linea Br4 con poliammide bio-based realizzata con processo produttivo a basso consumo di acqua ed energia (-20% rispetto al processo standard) e con una fibra bio-based proveniente da fonte rinnovabile che consente una riduzione del 25% di CO2eq rispetto alla poliammide standard. Vengono utilizzati inoltre poliammide riciclata e tessuti con nylon a biodegradabilità accelerata (dai 3 ai 5 anni rispetto ai 50 necessari per una fibra standard). Le produzioni – a km 0 – presentano inoltre viscose da scarti di cotone e cotoni certificati BCI.
Sul fronte fibre tessili ricordiamo il modello ormai consolidato di raccolta e riciclo di rifiuti di nylon tra cui reti da pesca provenienti da acqua coltura e abbandonate nei fondali marini svolto da Aquafil, azienda internazionale con sede ad Arco (TN) che dal 2007 realizza bilanci di sostenibilità. Aquafil è inoltre dal 2018 coordinatrice del progetto europeo Effective con l’obiettivo di realizzare polimeri da fonte rinnovabile. Il progetto è partecipato per l’Italia anche dall’azienda tessile Carvico (Carvico, Bergamo), da Novamont (Novara) e dalla società di consulenza torinese Life Cycle Engineering.
Da sempre RadiciGroup (Gandino, Bergamo) promuove un modello di business basato sull’economia circolare. Ottimizza l’uso di materie prime ed energia perfezionando i processi, eliminando gli scarti, promuovendo il riciclo sin dalle fasi di progettazione dei prodotti in una logica di ecodesign. Oggi tutti i materiali di RadiciGroup sono riciclabili. Alcuni derivano materie prime secondarie come Renycle, il nylon 6 da riciclo closed-loop, Repetable il poliestere derivato da scarto di bottiglia e Respunsible, il nontessuto di origine pre-consumer. Completano la gamma dei riciclati i tecnopolimeri Heramid, compound di poliammide ad elevate prestazioni. Inoltre, grazie ad un know-how chimico consolidato, è possibile per RadiciGroup affiancare ai prodotti da fonte fossile anche alternative bio-based derivate da scarti vegetali non in conflitto con le coltivazioni per l’alimentazione. L’energia elettrica da fonte rinnovabile supera il 43% nel Gruppo.
Fulgar con sede a Castelgoffredo, in provincia di Mantova, produce filati man made con caratteristiche di sostenibilità. Recentemente ha promosso FUTURE/Lab, una piattaforma virtuale di best practise ecologiche, attraverso la quale verrà data visibilità a giovani stilisti, produttori e brand che collaborano con l’azienda in progetti condivisi per promuovere uno sviluppo sostenibile e misurabile. La gamma di prodotti si è inoltre arricchita di filati in poliammide 6 riciclata al 60% in versione nera, variante ottenuta riciclando scarti tessili già colorati ed evitando così i processi di tintura e il conseguente impatto ambientale. Inoltre, nella variante di poliammide 6,6 riciclata (Q-NOVA) è stato inserito permanentemente uno speciale ingrediente in grado di tracciare in ogni momento l’origine riciclata del filato, a tutela dei clienti e di tutti gli stakeholder. Il filato è certificato Global Recycled Standard, Ecolabel EU ed è entrato a far parte dell’HIGG INDEX, indice di valutazione dell’impatto ambientale dell’intero ciclo produttivo.
Una citazione particolare merita l’iniziativa avviata in Agro San Severo (Foggia) da due giovani imprenditori pugliesi titolari del brand Gest, che hanno piantato e a fine settembre 2020 raccolto circa 150 quintali di cotone di primissima qualità riportando dopo secoli la coltivazione della fibra in Italia. Grazie all’adozione di tecnologie avanzate fra cui un’irrigazione a goccia, è stato possibile ridurre di oltre il 75% il consumo di acqua rispetto a quanto avviene in piantagioni di analoghe dimensioni nel bacino del Mediterraneo e già si parla di adozione di criteri di coltivazione biologica. Il cotone raccolto è destinato alla produzione di una linea di camiceria prodotta dal brand a km 0.
L’economia circolare nelle strategie della moda sostenibile
Presto per dire se la lezione indicata dalla pandemia (privilegiare produzioni di qualità destinate a durare) diventerà il modello di business dominante della nuova era della moda sostenibile, certo il tema è stato al centro di dichiarazioni di opinion leader e di convegni. Non mancano i progetti condivisi da imprese ed enti di ricerca finalizzati a sperimentare buone pratiche e sono innumerevoli i prodotti e le collezioni progettati utilizzando materiali second life e pensando alla loro gestione a fine vita. Il settore sembra muoversi su due livelli: da un lato la realizzazione di singoli prodotti/linee in grado di rendere tangibile a consumatori e stakeholders l’impegno sostenibile dell’azienda, dall’altra la crescente attenzione per le responsabilità che attribuite alle imprese in applicazione delle direttive UE 2018/851 e 2018/852 – pacchetto UE sull’Economia circolare. Un obiettivo che per quanto riguarda il recupero e riciclo della frazione tessile che richiede per essere raggiunto della presenza di una filiera in grado di raccogliere, separare e riciclare i volumi di abiti smessi o invenduti non ancora disponibile in Italia.
Su questo tema in particolare si inserisce il Patto per il tessile sottoscritto da Regione Toscana, Comune di Prato, Alia servizi ambientali, Confindustria Toscana Nord, Cna Toscana, Confartigianato Toscana e Astri, l’associazione che raggruppa le imprese del riciclo tessile. L’obiettivo del protocollo è favorire la formazione di filiere integrate in grado di connettere chi produce/ raccoglie rifiuti tessili riciclatori e i potenziali utilizzatori. Sono in fase di elaborazione le linee guida per l’applicazione del regime di sottoprodotto nell’industria tessile – cascami di fibre naturali e man made, sfridi derivati dai vari processi industriali – allo scopo di migliorare le performance del distretto a partire dalla individuazione di nuovi sottoprodotti sottratti al regime dei rifiuti. Sempre in ambito di piattaforme non possiamo dimenticare il progetto Life M3P (Material Match Making Platform), promosso dall’Unione degli Industriali della Provincia di Varese insieme a Centrocot (Busto Arsizio, Varese) e a partner internazionali nell’ambito del bando europeo Life 2015. Il progetto, si è posto l’obiettivo di promuovere un nuovo modello di simbiosi industriale, basato su una piattaforma on-line per condividere scarti, materiali e tecnologie e sviluppare “match” di simbiosi industriale anche in altre filiere e settori. Con la piattaforma M3P si ha la possibilità di offrire e richiedere flussi di scarti al fine di riutilizzarli ed evitare, di conseguenza, l’aumento di volumi di rifiuti nelle discariche e negli inceneritori. La piattaforma ha censito circa 470 materiali di scarto favorendone il riciclo e sviluppando buone pratiche tra imprese: ad esempio una piccola azienda ha utilizzato polveri di cotone, altrimenti destinate all’incenerimento, per la produzione di carta artigianale invece di utilizzare la cellulosa vergine; questo match consente una riduzione degli impatti ambientali: -27% delle risorse non rinnovabili, -50% consumo di acqua, -44% emissioni GHG, -43% ecotossicità. Il progetto M3P si è concluso lo scorso dicembre, tuttavia i partner a fronte dei risultati raggiunti (nel 2019 è stato indicato dall’Agenzia Europea EASME come “showcase project” a seguito della valutazione degli impatti ambientali ottenuti dai 444 progetti Life approvati nel periodo 2014-2016) continueranno a migliorare e promuovere la piattaforma anche in altri contesti territoriali e settoriali.
Centrocot è impegnato anche in un’altra iniziativa internazionale di cui è coordinatore. Si tratta del progetto REACT (REcycling of waste ACrylic Textile) finanziato della UE nell’ambito del programma H2020 è focalizzato sul riciclo meccanico dei tessuti acrilici utilizzati per la produzione di tende da sole e arredamento per esterni, andando ad affrontare una delle problematiche principali del riciclo meccanico, ovvero la bassa purezza del prodotto finale ottenuto dovuta all’impossibilità di rimuovere gli inquinanti/ finissaggi presenti sul tessuto durante le fasi di riciclo. Il progetto, che si concluderà nel 2022, ha come obiettivo l’identificazione di un processo per trattare, con un metodo ecologicamente ed economicamente sostenibile, i rifiuti acrilici in modo da rimuovere fino al 95% degli inquinanti presenti sul tessuto a fine vita, mirando a consentire ai produttori di tessuti europei di migliorare la sostenibilità, ridurre i rischi per l’ambiente e la salute e ridurre i rifiuti, andando a sviluppare un prodotto finale riciclato con un’elevata purezza. Inoltre, il progetto sta analizzando i reflui prodotti dal processo di rimozione dei finissaggi, in modo da sviluppare un processo industriale per ridurre il carico inquinante delle acque reflue generate, andando a diminuire il carico di lavoro degli impianti di depurazione municipali delle acque.
Per quanto l’attività delle imprese e l’attenzione degli addetti ai lavori siano state focalizzate per mesi sulla produzione di dispositivi di protezione personale, non sono mancate iniziative orientate a rafforzare i contenuti di sostenibilità della filiera tessile-moda. Possiamo infatti dire che, pur registrando una situazione di palese criticità, il settore appare sempre più orientato a impegnarsi nella riduzione dell’impronta ambientale dei propri prodotti e processi.
La riduzione dell’inquinamento da plastica sulla terra e nel mare anche mediante produzione e uso di bioplastiche biodegradabili in alternativa alla plastica tradizionale è invece l’obiettivo del progetto europeo Sealive di cui la società di ricerca pratese Next Technology Tecnotessile è partner. In concreto, le sue attività sono relative allo studio e realizzazione di filamenti per reti da pesca e packaging per l’imballaggio di molluschi realizzati con nuove formulazioni di biopolimeri ottimizzate secondo gli standard di mercato. Next Technology Tecnotessile collabora inoltre al progetto europeo BLUENET finalizzato al recupero di componenti plastiche dal mare per utilizzarli di nuovo come materia prima per fabbricare accessori come reti da pesca e corde per l’acquacoltura definendo la composizione del compound iniziale e le condizioni del successivo processo di filatura.
Ma si guarda anche oltre confine. Le imprese italiane sono presenti in progetti di economia circolare nella filiera tessile che l’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Industriale (UNIDO) sta realizzando nell’area mediterranea nell’ambito del programma Switchmed/MedTest III, cofinanziato dall’Unione Europea, in particolare in Marocco, Tunisia, ed Egitto, tre Paesi che hanno un ruolo importante negli approvvigionamenti della filiera della moda europea. Sono anche Paesi che negli anni del post-Covid si prevede saranno interessati da fenomeni di near-shoring e di trasferimento di produzioni dall’Asia ad aree più vicine ai mercati europei. L’obiettivo dei progetti è di sviluppare e sperimentare filiere del riciclo degli sfridi, degli scarti tessili e dei capi invenduti.
A questa sfida hanno aderito come partner del progetto oltre a grandi marchi della moda internazionale come Inditex (Zara), Hugo Boss, PVH (Calvin Klein, Tommy Hilfiger) e Nudie Jeans anche imprese italiane come il Gruppo Benetton e il Gruppo OTB (Diesel, Maison Margiela, Marni, Just Cavalli).
C’è un po’ di Italia anche nel team di esperti che stanno lavorando ai progetti per conto di UNIDO, composto dalla società milanese Blumine e della società estone Reverse Resources.
Per quanto riguarda invece le attività svolte dalle singole imprese è certamente cresciuta l’offerta di capi finiti e materiali descritti in base a caratteristiche di sostenibilità. Dal nostro punto di osservazione notiamo uno sforzo generale da parte della filiera della moda ad adottare logiche di ecodesign e a realizzare se non tutta la produzione, almeno capsule o specifiche collezioni a contenuto green. Difficile valutare quanto dietro ad affermazioni volte a qualificare i materiali come ‘sostenibili’, ‘riciclati’, ’biodegradabili’ ci siano le evidenze documentali necessarie ad evitare il rischio di greenwashing. In ogni caso si tratta di un trend che conferma la crescente sensibilità del sistema al tema. L’attenzione è posta soprattutto sulla selezione dei materiali utilizzati: dal cotone biologico o certificato BCI alle fibre man made ottenute da riciclo di rifiuti plastici recuperati dal mare fino alle filiere della lana sostenibile. Citiamo alcuni brand e imprese a titolo esemplificativo.
Lo storico produttore di denim sostenibile Candiani (Robecchetto, Milano) già citato nelle edizioni precedenti del rapporto per la continua ricerca di soluzioni tecnologiche e chimiche finalizzate a ridurre l’impatto ambientale dei processi e dei tessuti realizzati, aggiunge un contenuto di sostenibilità sostituendo l’elastan (materiale di sintesi difficilmente riciclabile) con l’elastomero naturale Coreva Stretch Technology ricavato dalla gomma e frutto della ricerca e sviluppo del brand. Recentemente ha presentato ReSolve, tessuto in cotone biologico e del filo degradabile stretch realizzato da ROICA per Candiani Denim e in grado di degradarsi senza rilasciare sostanze pericolose per l’ambiente e validato da Hohenstein Environmental Compatibility e dal Gold Level Material Health Certificate del Cradle to Cradle Product Innovation Institute per un fine di vita sicuro.
Oltre, il marchio di Miroglio Fashion punta invece per i propri capi denim sulla tela Vicunha Absolut Eco, composta da fibre riciclate e i cui processi produttivi garantiscono la riduzione del consumo di acqua del 95% e dei prodotti chimici del 90%. Anche i fili utilizzati per ogni cucitura, l’etichetta in cuoio e i bottoni in legno derivano da materiali riciclati. L’effetto usato del tessuto è ottenuto attraverso il Wiser Wash, un processo che permette di ottenere i chiaroscuro tipici dello stone washed senza l’utilizzo di agenti tossici o di pietra pomice. Ancora in tema di denim segnaliamo Berto Industria Tessile che grazie alla collaborazione con Marchi&Fildi di Biella ha riciclato i propri scarti post produzione reinserendoli nel nuovo tessuto. La percentuale di fibra riciclata è del 65%. Il cotone utilizzato e l’indaco per la tintura sono inoltre biologici e certificati Gots. Fibre artificiali da scarti di cotone Bemberg sono utilizzate da Brunello (Brunello, VA) per le collezioni ispirate al damasco africano mentre Gianni Crespi Foderami utilizza la fibra nella modalità Stretch per ottenere la massima flessibilità, resistenza e comfort senza l’uso di elastomeri e poliesteri grazie a una modalità complessa di torcitura, tessitura e finitura del filato. L’azienda dispone inoltre di prodotti certificati OekoTex, GRS e FSC.
Dal cotone alle fibre man made ottenute da recupero di plastica abbandonata nel mare. Un obiettivo su cui si cimentano sempre più aziende come Armata di Mare, marchio di proprietà di Facib (Solbiate Olona, Varese) che utilizza polimeri ottenuti dal riciclo delle bottiglie in sostituzione di tutti i componenti plastici attualmente presenti in giacche, accessori e packaging. Plastica raccolta dal mare e riciclata anche per Clerici Tessuto (Grandate, Como) che ha annunciato di aver avviato una collaborazione con l’organizzazione ambientalista Parley for the Oceans per la realizzazione di nuovi tessuti eco-innovativi. I tessuti realizzati sono certificati Grs (Global Recylce Standard).
Sempre sul fronte delle collaborazioni con stakeholder impegnati sul fronte della sostenibilità citiamo il Lanificio Luigi Colombo, Borgosesia (VC) che collabora con Sustaibnable Fibre Alliance-Sfa, organizzazione no profit che si prefigge l’obiettivo di creare un dialogo tra la filiera del cashmere e le organizzazioni governative e non, per assicurare un’industria sostenibile tutelando i territori con un Codice di Condotta per le comunità di pastori, affinché preservino e rigenerino i pascoli nel rispetto delle biodiversità. La Sfa punta inoltre a implementare un Codice di Salvaguardia, affinché i pastori adottino sistemi di allevamento che rispettino il welfare degli animali, specie nei periodi di condizioni climatiche molto rigide. Fibre di pregio ma circolari anche per Ratti (Como) che grazie alla collaborazione con Freudenberg Performance Materials, leader di materiali tecnici con sedi produttive in più regioni italiane) ha sviluppato Second life Fibers un progetto per lo sviluppo di imbottiture realizzate con seta riciclata.
Il Gruppo Calzedonia (Dossobuono di Villafranca di Verona) ha avviato già nel 2018 un’operazione di rivisitazione del packaging utilizzato nei punti vendita per arrivare a dichiarare l’azienda plastic free. L’azienda stima di poter così risparmiare un totale di 75 tonnellate di plastica equivalente a 7,5 milioni di bottigliette di plastica per eliminare la “plastica monouso” negli imballaggi B2C, entro il 2025 e negli imballaggi B2B entro il 2030. Con il brand Intimissimi ha inoltre sviluppato una linea di intimo, pigiami e maglieria di fibre certificate, contrassegnate da un cartiglio che le renderà riconoscibili all’interno della main collection. Ad esempio il pizzo contiene il filato di poliammide da riciclo e la seta deriva da una filiera controllata, compaiono inoltre fibre artificiali come il bamboo prodotte a basso impatto ambientale. Imbotex (Cittadella, PD) è invece un’azienda che realizza imbottiture innovative studiate in una logica di sostenibilità. La ricerca di fibre high-tech di ultima generazione ha dato origine a Celliant, Solotex, Cloud, blend realizzati con processi produttivi brevettati che attribuiscono caratteristiche di portanza e idrorepellenza. I prodotti si propongono come alternativa alla piuma e sono trattati con un processo chlorine-free.
Ma poiché l’economia circolare non si identifica solo con il riciclo ma con strategie di recupero e riutilizzo di materiali è bene citare anche esperienze che interpretano in modo diverso l’ecodesign.
Maeba International (Vedelago, Treviso) ha fatto parlare di sé per aver dato evidenza – prima al mondo – al proprio modello di business basato sul recupero, l’ispezione e la vendita di eccedenze produttive, fine serie, tessuti altrimenti potenzialmente destinati alla termovalorizzazione o alla discarica. L’azienda ha infatti acquisito un’asserzione ambientale di II tipo ISO 14021 validata da Centrocot che mediante il logo ReLifeTex appositamente studiato qualifica i tessuti recuperati.
Sulla scia di Quid (Verona) la ormai consolidata impresa tessile che utilizza tessuti recuperati dai magazzini di aziende tessili, si diffondono start up come Blue of a Kind (Milano), un giovane brand che produce capi unici in denim recuperando e destrutturando tessuti e abbigliamento di scarto per produrre capi unici con un approccio sartoriale. Daema è invece una start up bergamasca che realizza abbigliamento sportivo con materiali pregiati in fibra naturale quale lana e cotone selezionati con criteri di sostenibilità e lavorati da una filiera interamente made in Italy. A fine vita i capi sono recuperati dal produttore attraverso la rete dei club sportivi che partecipano al progetto e trasformati in accessori personalizzati, come borse e guanti. L’azienda ha pianificato anche un sistema di riparazione per allungarne la durata. Sempre in relazione alle start up, citiamo R3Unite (Busto Arsizio, Varese) fondata da fondata da tre giovani under30 che identificano la sostenibilità nella formula made in Italy, materiali nobili e sostenibili (cotone biologico) e durabilità. I capi e prodotti in un numero limitato per evitare sprechi e eccedenze, hanno linee essenziali, sono destagionalizzati e genderless. Ogni capo è lanciato con un esplicito riferimento ad un obiettivo sociale o ecologico che viene sponsorizzato con parte dei ricavi della capsule stessa, quale ad esempio la rimozione di 10 tonnellate di plastica dal mar Mediterraneo tramite la collaborazione con un start up tech australiana, Seabin Project, o la riforestazione di una zona rurale in Ethiopia insieme alla no profit Svizzera Green Ethiopia.
Utilizzare scarti della produzione del marmo raccolto nelle cave italiane per funzionalizzare tessuti è invece la soluzione elaborata dalla start up milanese Fili Pari. Il progetto consente di sviluppare un materiale dalle caratteristiche estetiche e tecniche interessanti e nel contempo recupera polvere di marmo inglobandola in un sottile film in poliuretano accoppiato a tessuti di cotone, lana, fibre man made.
A Palermo un bene confiscato alla mafia diventa il laboratorio della Sartoria Sociale di Al Revés, cooperativa che utilizza tessuti e abiti smessi per realizzare le sue creazioni. Due gli obiettivi: l’inclusione socio-lavorativa e il supporto a persone svantaggiate. È invece digitale l’approccio di Renoon, piattaforma di ecommerce di capi usati o nuovi ma selezionati con criteri green (ma il sito presenta anche pagine informative sul tema della sostenibilità) . L’azienda è stata selezionata tra le prime dieci aziende di tecnologia applicata alla moda all’interno di Startupbootcamp, il programma internazionale di accelerazione per startup attive nel settore FashionTech. Infine Zerobarracento, la start up milanese che punta su soluzioni di design che evitano la produzione di scarti di produzione ed utilizzano materiali second life, è stato selezionato per Showcase, un progetto di scouting di Altaroma per nuovi talenti e brand indipendenti del made in Italy. Lo studio di consulenza Lottozero (Prato) ha recentemente avviato Circular Wool, progetto di recupero delle lane rustiche toscane, valorizzate in complementi d’arredo progettati in collaborazione con designer internazionali. La società è anche un hub creativo che supporta lo sviluppo di talenti emergenti dell’arte e del design tessile attraverso talent scouting internazionali e residenze mirate, interagendo con le aziende locali contribuiscono a rivitalizzare culturalmente e creativamente il distretto.
Ricerca di soluzioni sostenibili da parte di Bonaveri, azienda di Renazzo di Cento (Ferrara) specializzata nella produzione di manichini sostenibili. Grazie all’utilizzo di una bio-plastica proveniente dal 72% dalla canna da zucchero, è stato realizzato un manichino in biopolimero biodegradabile. L’articolo è inoltre verniciato con formulati ottenuti da sostanze organiche rinnovabili, resine, solventi ed oli di origine vegetale vegetali, tensioattivi privi di fosforo. L’intero processo è stato oggetto di una LCA svolta da ricercatori del Politecnico di Milano. È un segnale interessante, non solo la moda sta mettendo sotto i riflettori i materiali che utilizza per realizzare le proprie collezioni ma anche il packaging, le sfilate, gli allestimenti dei punti vendita.
69. Metodo di selezione degli asset finanziati basato su criteri anche ambientali e sociali.
70. Programma internazionale che ha accolto la sfida lanciata da Detox di Greenpeace, per realizzare un piano per la riduzione delle sostanze chimiche pericolose di tutta la catena di fornitura del settore tessile calzaturiero e conciario.
71. Una serie di strumenti che consentono di misurare gli impatti sociali e ambientali di un’azienda e della sua catena di fornitura.