Realizzato in collaborazione con Manuel Orazi, Storico dell’architettura.
Questo contributo fa parte della rubrica #iosonocultura, parte del Decimo rapporto IO SONO CULTURA realizzato da Fondazione Symbola, Unioncamere e Regione Marche in collaborazione con l’Istituto per il Credito Sportivo.
Nessun architetto si era mai spinto fino a immaginare una pandemia come quella che si è fatta strada ovunque nel mondo.
Nemmeno gli architetti radicali purtroppo scomparsi nel corso dell’ultimo anno: da Cristiano Toraldo di Francia a Adolfo Natalini, da Yona Friedman a Vittorio Gregotti, quest’ultimo prima vittima illustre del Covid 19. Lo spostamento della Biennale di architettura di Venezia al 2021 non fa nemmeno notizia e, visto il titolo, How will we live together?, scelto dal direttore Hashim Sarkis, andrà completamente ripensata così come il Padiglione italiano diretto da Alessandro Melis. Il distanziamento sociale ha imposto uno status quo distopico in cui i rapporti personali e politici sono annullati, inclusi quelli famigliari, secondo un coprifuoco infinito, valido h24 e non solo di notte, come in tempo di guerra. Al punto che Giorgio Agamben ha parlato di stato d’eccezione senza precedenti. L’architettura, infatti, è sempre ipotesi di vita associata, massimamente urbana. Dove non c’è vita ci sono infatti rovine, ghost town, deserto. Al massimo piazze metafisiche, vuote come negli inquietanti paesaggi urbani di Mario Sironi del primo Dopoguerra, carichi di una tensione latente, così come le foto odierne delle città vuote.
Con l’edilizia ferma si è intensificato il dibattito tra gli architetti italiani, posti di fronte a una condizione del tutto inedita.
Emergono problemi nuovi che mettono in discussione anche molti parametri della sostenibilità edilizia: questo è il caso ad esempio, degli edifici in acciaio e vetro chiusi in modo ermetico, alla Norman Foster per intenderci. Edifici che vivono di aria condizionata, ottenuta artificialmente o naturalmente per ottimizzare il consumo energetico, e che per questo motivo oggi vanno ripensati: l’aria condizionata, infatti, naturale o meno, trasmette il virus meglio di qualunque altra cosa nell’aria, attraverso i suoi dispositivi (bocchette d’areazione, condotti), nelle abitazioni ma anche nei treni ad alta velocità, negli aeroplani e nei centri commerciali. Inoltre, il proliferare, per moda o praticità, dei cosiddetti “open space” ha favorito la diffusione del virus, specie nel caso degli uffici. Occorrerà, dunque, agire e pensare diversamente, tenendo a mente che le epidemie e l’igiene sono alla base dell’urbanistica moderna, se è vero com’è vero che gli “sventramenti” parigini e poi napoletani dell’800 furono attuati, al di là delle intenzioni delle classi dirigenti del momento, su impulso degli ingegneri igienisti, progenitori degli urbanisti. A ben vedere l’igiene è sempre stato un motore di rinnovamento architettonico e urbano: in una lezione incentrata sul passaggio tra Medioevo e Rinascimento, Giancarlo De Carlo – di cui ricorre il centenario dalla nascita – spiega come “una delle prime regole che viene stabilita è che le strade debbano essere più larghe, per consentire la ventilazione trasversale, e pavimentate, perché la mota facilita il trasmettersi delle malattie, in particolare la peste, il flagello che aveva profondamente coinvolto e scosso tutti gli esseri umani. […] In primo luogo vengono distinti gli spazi destinati agli uomini da quelli utilizzati per gli animali; nella città medievale vivevano tutti insieme, negli stessi luoghi, e non è detto che fosse un male dal punto di vista della comunicazione tra uomini e animali, che forse allora aveva una grande ricchezza che ora è andata completamente perduta, ma dal punto di vista igienico era molto dannoso, anche per gli animali, immagino”[1].
Carlo Ratti e Italo Rota hanno realizzato, grazie a Unicredit, un sistema componibile di ospedali d’emergenza in forma di container assemblati, che ricordano tanto le soluzioni abitative d’emergenza per il terremoto; Massimiliano Fuksas ha scritto una lettera al presidente Mattarella, con Marco Casamonti (Archea), per inserire l’architettura nell’orizzonte della task force di Vittorio Colao; Stefano Boeri ha lanciato, nelle dirette Instagram della Triennale, l’idea di un “ministero della dispersione”, prevedendo un plausibile spostamento graduale della popolazione verso i piccoli comuni alpini e appenninici, dove il distanziamento sociale è maggiore, riferendosi ai territori interni, già oggetto di studio del padiglione italiano alla Biennale del 2018 (diretto da Mario Cucinella) e in parte colpiti dai terremoti del 2016. Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, che da oltre trent’anni è fra i pochi che nelle aree interne ci vive (a Vittoria, in Sicilia), afferma: “Mi fa sorridere il fatto che di colpo sembra se ne siano accorti tutti. Queste zone, che io preferisco chiamare aree marginali, esistono da sempre. Dopo anni trascorsi a discutere di densità urbana, ecco che ora si cambia rotta. Il primo come sempre è stato Rem Koolhaas con il Countryside, che faccia tosta, proprio lui che è partito da Manhattan… Nella capitale una volta non c’erano i quartieri, ma i rioni, che avevano una forte identità e che, soprattutto, avevano una qualità in comune: erano entità assolutamente autonome. C’era un’idea di comunità, ci si conosceva più o meno tutti o, almeno, c’era un rapporto di conoscenza. Tutto questo, invece, è sopravvissuto solo nelle aree marginali”. Insieme al Consiglio Nazionale degli Architetti, Mario Cucinella lavora a un documento collettivo, in collaborazione con il rettore del Politecnico di Milano Ferruccio Resta e altri: “È quantomeno singolare che gli architetti non vengano coinvolti in una fase drammatica della vita del Paese in cui si riflette sulla ricostruzione di un modo di vivere diverso, in cui la dimensione spaziale della nostra esistenza assume un ruolo prioritario, finanche di sopravvivenza. È inaccettabile che gli architetti non abbiamo un ruolo riconosciuto nella delineazione del disegno strategico di quel che è prioritario, giusto e utile fare per il nostro Paese: perché la crisi, la pandemia, la paura si traducano in una possibilità e non rimangano nel nostro tessuto sociale solo come una ferita. Un trauma senza risposta”. Non solo nuove costruzioni, però: bisognerebbe infatti migliorare il patrimonio di edilizia residenziale pubblica (Erp) esistente, ora demandato alle Regioni con i soliti disastri, come denunciato puntualmente da Alessandro Almadori di Ater Umbria e animatore con altri di FedercasaLAB: “dopo la chiusura della Gescal nel 1994, l’Erp è stata inghiottita da uno stallo manageriale, senza investimenti, senza manutenzione. Ovviamente si è deperita, lasciando circa un milione di famiglie che pagano un canone mensile fra i cento e i duecento euro mensili: come si può pensare di dare valore a un patrimonio del genere senza investimenti? Altro che architetti, senza dare valore all’Erp si rinuncia a un pilastro del welfare di cui ci sarà un assoluto bisogno nei prossimi anni e che nel Nord Europa, al contrario, è in continuo sviluppo”.
Se è ora di cambiare, forse è giunto il momento per una legge sull’architettura.
In molti si aspettavano che sarebbe stato il senatore Renzo Piano a promuoverla in parlamento, ma sono rimasti delusi. Margherita Guccione, direttrice del Maxxi Architettura, negli ultimi due anni ha riunito giuristi (Giovanni Maria Flick), curatori e architetti (in particolare Maria Claudia Clemente di Labics, Alberto Iacovoni di Mao, Simone Capra di stARTT, Luca Galofaro) in una serie di incontri confluiti in un documento: Verso una legge per l’architettura, appunto. Qui, Guccione ricorda che in Francia c’è una legge dal 1977 che prevede, in estrema sintesi, che gli urbanisti decidono i volumi e gli architetti li realizzano sulla base di concorsi pubblici. Si tratta dunque di un punto di riferimento visto che quasi tutti i nostri maggiori architetti si sono affermati prima in Francia e poi da noi: Piano col Centre Pompidou, Gae Aulenti e Rota col Musée d’Orsay, Fuksas, Cucinella, oggi Alfonso Femia, Umberto Napolitano di LAN, Ludovica Di Falco di Scape e altri ancora. Leggi simili sono state promulgate anche in Olanda e Catalogna, mentre nel Regno Unito c’è il CABE – Commission for Architecture and the Built Environment. Guarda caso sono tutte le aree europee dove l’architettura prospera per innovazione, varietà e alto livello della programmazione. La discussione va strappata però in ogni modo ai soli addetti ai lavori: giustamente lo scrittore indiano-newyorchese Suketu Mehta afferma che “Di questi tempi la conversazione sulla pianificazione urbana è come la messa in latino, appesantita da un gergo volto a rafforzare le barriere che circondano la corporazione professionale… Con gli urbanisti è diverso: i loro sogni possono diventare i nostri incubi. Il resto di noi dovrà entrare, dormire, vivere dentro i loro sogni. Per questo abbiamo bisogno di capire quale storia ci stanno vendendo”[2].
In Italia siamo messi meglio che altrove quanto a dibattito, basti pensare all’abbondare di riviste (Domus, Casabella, Interni, Abitare, Icon Design, Area, The Plan fra le altre) e alla capacità di molti dei progettisti sopra elencati di interferirsi con la sfera pubblica. Il problema ora è finalizzare tutto questo dibattito in una proposta di legge, da discutere in parlamento. Altrimenti prevarrà la logica attuale delle gare al ribasso e, dunque, del massimo degrado progettuale. Oppure dell’appalto integrato, dove i progetti sono delegati direttamente alle imprese – il sogno dei burocrati, che vedono nel progetto solo un intralcio. Come se i ritardi e le spese dipendano dal ruolo e dalla parcella dell’8% dell’architetto: lo abbiamo visto nel caso della Nuvola “è colpa di Fuksas!” – che voleva ritirare la firma – e non dell’ente Eur; o della politica che ha farcito di nomine gli enti preposti. Bisogna dirlo chiaro: no alla centrale unica di progettazione e no all’appalto concorso, in cui il coltello dalla parte del manico lo hanno le imprese, tendenti a chiamare prevalentemente gli architetti, di grido o meno, per farsi fare “un progettino” che realizzeranno loro (prendendosi anche il 6-7% del loro onorario e, se dissenti, sostituibili con architetti più accondiscendenti). Chi andrebbe in un ristorante dove il menu lo fanno le ditte fornitrici buttando in pentola gli ingredienti che hanno, secondo “una ricettina” di uno chef di grido letta su internet? Non stupiamoci poi se la ricostruzione dal terremoto o le nostre periferie sono perlopiù un mappazzone urbanistico. E, infine, come si fa a pensare di migliorare in senso energetico, ecologico, antisismico l’architettura italiana affidandosi solo alle imprese? Sospendendo il codice degli appalti come a Genova per la costruzione di un viadotto (assai più modesto dell’ardito ponte Morandi)?
Filarete, e con lui Leon Battista Alberti, diceva che l’architettura ha bisogno di un padre, il committente, e di una madre, l’architetto; con l’impresa responsabile di tutto sarebbe solo figlia di NN. L’invito agli stati generali organizzato dal Governo Conte di alcuni architetti non lascia ben sperare visto che sono stati relegati nell’ultima giornata, quella dedicata agli attori, musicisti, scrittori. Come diceva Adolf Loos, “L’architettura non è un’arte, poiché qualsiasi cosa serva a uno scopo va esclusa dalla sfera dell’arte”.
[1] Da La città e il territorio, a cura di C. Tuscano, Quodlibet.
[2] Da La vita segreta delle città, Einaudi.