Sono segnali contraddittori quelli che provengono negli ultimi mesi dal settore dell’arte contemporanea: emergono o si consolidano alcuni fenomeni, che talora conquistano città e regioni finora solo marginalmente interessate dal fenomeno stesso (l’esempio dei musei privati a Roma è il più evidente), altri invece subiscono un rallentamento importante. È il caso dell’arte urbana e in particolare della Street Art: un riflusso prevedibile, dopo l’exploit del 2015 e la coda lunga rappresentata da Triumphs and Laments, l’intervento realizzato da William Kentridge sulle rive del Tevere a Roma, nonché dalle accese polemiche che hanno accompagnato la mostra Street Art – Banksy & Co. allestita a Palazzo Pepoli a Bologna, in reazione alla quale lo street artist Blu ha cancellato diverse opere da lui stesso realizzate in città.
Si faceva cenno ai musei privati. Milano resta la città più dotata in questo senso: ultimo esempio, il Museo d’arte etrusca che a fine 2018 aprirà a Palazzo Bocconi-Rizzoli-Carraro, forte dell’intervento architettonico di Mario Cucinella, dotato di sale espositive ma anche di attività scientifiche e didattiche transdisciplinari. Il tutto promosso dalla Fondazione Luigi Rovati, la cui vicepresidente Giovanna Forlanelli Rovati[2] è altresì direttore generale di Rottapharm Biotech, collezionista d’arte contemporanea e a capo della casa editrice Johan & Levi. Negli ultimissimi tempi Roma si sta tuttavia allineando con grande rapidità. A una forma di mecenatismo che è consistita soprattutto nel sostegno ai restauri (Tod’s per il Colosseo, Bulgari per la Barcaccia in piazza di Spagna e la scalinata di Trinità dei Monti, Fendi per la Fontana di Trevi – nonché main sponsor del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia 2017 –, Yuzo Yagi per la Piramide Cestia, solo per citare gli interventi più noti e importanti) si sta infatti affiancando la progettazione e presto l’apertura di veri e propri musei privati, landmark urbani pronti a cambiare il profilo e il panorama della città. In primis va citata la Fondazione Alda Fendi che, nel Palazzo del Velabro, sta aprendo uno spazio ampio, progettato da Jean Nouvel, aperto alle più varie forme di arte, ma anche di residenzialità, di commercio evoluto, di tecnologia, di esposizione. Ci sono poi Claudio Cerasi e la sua famiglia, che hanno ricostruito in via Merulana uno strepitoso palazzo di inizio Novecento, da tempo diroccato e demolito. Dentro ci saranno spazi per una collezione di pittura e scultura antica, senza dimenticare spazi per eventi, mostre temporanee, ristorazione; anche qui, quattro piani e centinaia di metri quadri che, come per Alda Fendi, riqualificano e restituiscono dignità a un pezzo di città. Infine, lo spazio che Ovidio Jacorossi sta approntando in quella via dei Chiavari dove iniziò, svariate generazioni fa, l’attività economica di una dinasty industriale che fu la realtà produttiva privata più importante della Capitale. Qui Jacorossi, imprenditore e grande collezionista, offrirà una piattaforma che servirà anche e non solo a valorizzare la sua notevole raccolta.
Se questi appena citati sono casi di imprenditori italiani che investono sul proprio territorio, non mancano esempi altrettanto interessanti di imprese straniere che scelgono il nostro Paese per aprire nuove sedi. Qui si tratta soprattutto di gallerie d’arte consolidate, che in Italia inaugurano spazi spesso importanti, a testimonianza che il collezionismo nostrano continua ad avere un peso non indifferente a livello continentale. Così succede che, a Venezia, non ci siano “soltanto” colossi come François Pinault e Bernard Arnault, l’uno con la doppia sede espositiva di Palazzo Grassi e Punta della Dogana, l’altro con un’offerta più legata al mercato del lusso tramite l’Espace Louis Vuitton e il roof del T Fondaco dei Tedeschi. Succede che in Laguna aprano anche figure internazionali come Victoria Miro (con la sua quarta sede, dopo le tre attive a Londra, e proprio negli storici spazi della Galleria Il Capricorno, aperta nel 1971 da Bruna Aickelin, a pochi passi dal Teatro La Fenice), Alberta Pane (veneziana di origine ma da quasi un decennio con una galleria a Parigi. Lo spazio lagunare è situato in una ex falegnameria nel sestiere Dorsoduro) e Alma Zevi (che nell’aprile 2016 ha inaugurato uno spazio permanente in zona San Samuele, continuando altresì a sviluppare la propria programmazione nella galleria di Celerina, in Svizzera, e a proporre numerosi progetti extra moenia). Assai meno impattante la presenza straniera a Milano, almeno in parte a causa della concorrenza locale piuttosto agguerrita. Si segnala soltanto la Lisson Gallery: nata a Londra nel 1967 su iniziativa di Nicholas Logsdail, nella capitale britannica ha due sedi e altrettante a New York, mentre il suggestivo spazio meneghino, aperto nel 2011 e diretto da Annette Hofmann, verrà purtroppo chiuso entro la fine del 2017.
Il movimento più recente e imponente sta avvenendo a Roma, in parziale controtendenza rispetto all’importante flusso di gallerie italiane che in anni recenti hanno spostato la propria sede (o aperta una ulteriore) all’estero, spesso nel quartiere Mayfair di Londra[3]. Se l’apripista è stato Gagosian nel 2007, con uno spazio a Roma che attualmente va a sommarsi ad altri quindici (!) luoghi espostivi distribuiti in tutto il mondo – il primo fu a Los Angeles, inaugurato nel 1980 –, nel 2015 è tornato nella Capitale anche Gavin Brown, dopo una breve esperienza fra 2003 e 2005 in compagnia di altri due galleristi, Franco Noero di Torino e Toby Webster di Glasgow. L’accelerazione rientra tutta nell’anno in corso, con l’apertura a gennaio della seconda sede di Emanuel Layr, a supporto della sede madre nel centro storico di Vienna; la sede capitolina è a Trastevere, dove si trova lo stesso Gavin Brown, oltre a T293 e a Frutta Gallery (anche quest’ultima gestita da uno straniero, James Gardner, che tuttavia ha scelto Roma come unica città – almeno per ora – in cui portare avanti la propria attività). E poi c’è Postmasters, player che in trentadue anni di storia si è ritagliato un ruolo di primaria importanza nel suo core business, a cavallo fra attivismo politico e new media art; ancora ignota la zona in cui aprirà, ma sarà sicuramente a Roma la seconda sede, con apertura prevista entro l’anno. Così come, sempre nel 2017 ma questa volta a Napoli, aprirà la filiale romana della londinese Thomas Dane Gallery, l’unica finora a scegliere la città partenopea.
Il sostanziale bilanciamento fra in (stranieri che scelgono di operare in Italia) e out (italiani che scelgono di operare all’estero) che si registra nell’ambito del settore galleristico è invece assente per quanto concerne il cosiddetto brain drain[4], che vede – ormai da molti anni – una vera e propria emorragia di artisti, curatori, critici e studiosi dall’Italia verso altri Paesi, con una dinamica inversa caratterizzata da numeri sensibilmente inferiori. Alcuni osservatori hanno sintetizzato con la formula “non è un paese per giovani” ma – come tutte le semplificazioni – tale formula non è pienamente corretta. Non tanto perché estremizzi un problema, bensì perché non ne coglie il carattere schizofrenico. Quest’ultimo è rappresentato in maniera esemplare da due recenti nomine pubbliche, avvenute entrambe a Bologna: a pochi giorni dall’assegnazione (previo bando) al 34enne Lorenzo Balbi dell’incarico di Responsabile dell’Area “Arte moderna e contemporanea” dell’Istituzione Bologna Musei, il sindaco della città – con nomina diretta – ha scelto, in qualità di coordinatore dei musei della città metropolitana, Fabio Roversi Monaco, ex rettore dell’Alma Mater, presidente della Fondazione Carisbo nonché di Genius Bononiae. Ma, soprattutto, classe 1938.
Tra i fenomeni che trovano conferma, vanno almeno citati un certo attivismo ministeriale (l’operato del ministro Dario Franceschini sta fungendo altresì da “traino” nei confronti di realtà istituzionali più piccole, che si traduce in numerosi concorsi per le figure apicali di musei e istituti di formazione superiore) e la proliferazione di spazi gestiti direttamente da artisti e/o curatori[5], noti come artists run space o curators run space e spesso erroneamente confusi con attività non profit (la scelta di essere realtà for profit o non profit è indipendente dalla caratterizzazione di indipendenza). In questo caso, il dato più interessante consiste nei primi tentativi, più o meno riusciti, di “capitalizzare” e mettere in rete tali realtà: operazione che ha preso la forma dell’evento NESXT durante la settimana dell’arte a Torino, in coincidenza con la fiera Artissima (le realtà coinvolte erano: BOCS di Catania, Carico Massimo di Livorno, Cose Cosmiche di Milano, Current di Milano, Frequente di Milano, Giuseppefrau di Gonnesa, Le Dictateur + B-tomic di Milano, Localedue di Bologna, Museo d’Inverno di Siena, Museo Wunderkammer di Trento, N38E13 di Palermo, Ramdom di Lecce, Rave East Side Artists Residency di Trivignano Udinese, SPAZIENNE di Milano, Spazio Y di Roma, Studio Corte 17 di Prato, Werkbank Lana di Bolzano, Wunderbar+Peninsula di Roma/Berlino, Zentrum di Varese e /77 di Milano); e con Outer Space, mostra inaugurata anch’essa durante una fiera, miart a Milano (le realtà coinvolte erano: Almanac di Torino, Current di Milano, Gelateria Sogni di Ghiaccio di Bologna, Le Dictateur di Milano, Mega di Milano, Site Specific di Scicli, T-space di Milano, Tile Project Space di Milano, Treti Galaxie di Torino e Ultrastudio di Pescara).
Un ultimo cenno per una tendenza internazionale, quella dell’impegno sociale da parte dell’arte contemporanea, che anche in Italia ha trovato culmini notevoli (due esempi recenti: la mostra di Ai Weiwei a Firenze e la rassegna La Terra Inquieta a Milano, promossa dalla Fondazione Trussardi e curata da Massimiliano Gioni). Pur con le infinite sfaccettature che tale impegno può assumere, si tratta di un’attitudine che sta mostrando palesemente i propri limiti, in particolare durante l’ultima edizione della quinquennale Documenta di Kassel, quest’anno con una filiale espositiva ad Atene. Se l’intento era, almeno “sulla carta”, nobile – aprire riflessioni critiche al centro geografico stesso della crisi economica europea –, in realtà molti osservatori hanno sottolineato come tutto ciò si sia tradotto in un ambiguo “calo dall’alto” di tematiche portate dalla Germania alla Grecia, senza alcun legame e confronto con la realtà locale, e con uno snaturamento delle potenzialità dell’arte a intervenire o perlomeno sensibilizzare su tematiche non esclusivamente estetiche. In questo quadro, l’ultima edizione della Biennale di Venezia sembra indicare una direzione opposta da intraprendere: un “ritorno ai fondamentali” che metta in primo piano l’arte e gli artisti, al fine di ricostruire un dialogo immaginifico e non strumentale dell’arte stessa con il proprio contesto sociale, economico, geografico[6].
[2] Cfr. l’intervista pubblicata su Artribune Magazine – Grandi Mostre, n. 36/3, pp. 54-55.
[3] Cfr. la sezione sull’arte contemporanea nel Rapporto 2016.
[4] È il titolo della rubrica curata da Neve Mazzoleni su Artribune Magazine, con interviste agli operatori culturali italiani che vivono e lavorano all’estero.
[5] Cfr. la sezione sull’arte contemporanea nel Rapporto 2016.
[6] Ci permettiamo di rimandare a M.E. Giacomelli e M. Tonelli, “La Biennale di Venezia è brutta ma è giusta. Ecco perché”, in Artribune.com, 12 maggio 2017, http://www.artribune.com/arti-visive/arte-contemporanea/2017/05/la-biennale-di-venezia-e-brutta-ma-e-giusta-ecco-perche/; e a M.E. Giacomelli e M. Tonelli, “Biennale di Venezia 2017. Intervista con la direttrice Christine Macel”, in Artribune.com, 14 maggio 2017, http://www.artribune.com/arti-visive/arte-contemporanea/2017/05/biennale-di-venezia-2017-intervista-christine-macel/.