Puntare alla qualità, a un pubblico di nicchia, ma allo stesso tempo all’innovazione tecnologica nel campo della produzione di notizie e di contenuti: è questo il trend che nel campo del digitale segna il 2016, l’anno delle fake news, dell’elezione di Donald Trump e della post-verità. Perché proprio nel momento del bisogno di brand affidabili a cui rivolgersi nel consumo di notizie ma anche di beni, le persone scelgono di spendere dove c’è sostanza e ricerca. Dagli Stati Uniti arrivano esempi di colossi come il Washington Post o il New York Times, ma anche in Italia ci sono realtà grandi e piccole che riescono a farsi strada grazie all’ascolto della propria community.
Esiste un business model che permetta al giornalismo di qualità di sopravvivere? Investire nel digitale per un’impresa che si occupa di cultura o di artigianato è una scelta vincente? Sono domande su cui nel 2017 si discute ancora sulle pagine dei giornali, nei numerosi festival della comunicazione e del giornalismo organizzati in Italia e all’estero e che non hanno ancora trovato una risposta univoca. Non si tratta di rispondere ciecamente che sì, il digitale “è la soluzione”, anche perché in realtà potrebbe non essere così, se manca la visione di quello che digitale significa in termini di cambiamento di struttura del lavoro, di apertura verso esterno, velocità di adattamento e capacità di integrare competenze nello staff che oggi sono sempre più legate alla raccolta e all’interpretazione dei dati.
Caratteristiche che una testata come il Washington Post sembra aver assimilato perfettamente, tanto che alla fine del 2016 l’editore e amministratore delegato Fred Ryan ha potuto inviare una lettera ai giornalisti della redazione con la conferma che il giornale avrebbe concluso l’anno “come un’azienda redditizia e in crescita”. Nel 2016 il WP infatti ha chiuso con il 75% degli abbonati in più rispetto ai dodici mesi precedenti. Non sono cresciuti solo gli abbonamenti: i guadagni dalla pubblicità online sono aumentati del 40%, un “record” scrive ancora Ryan nella sua lettera, in cui promette nuovi investimenti e nuove assunzioni per il team che si occupa delle inchieste, un’espansione nel settore dei video, diventato la chiave dello storytelling del quotidiano, nuovo staff per le newsletter, per le breaking news e per i progetti speciali come i podcast. Tutto questo è stato possibile grazie alla visione di Jeff Bezos, fondatore di Amazon, che nel 2015 ha rilevato il giornale con un investimento di 50 milioni di dollari, incoraggiando da sempre gli esperimenti nella redazione. Con una strategia che valorizza la capacità di produrre contenuti diversificati, come i video, ma al tempo stesso all’aumento degli introiti, perché il video diventa il formato ideale per monetizzare la pubblicità mobile. A provarci con un pubblico di nicchia ma di grande interesse per il mercato pubblicitario è la testata ScuolaZoo, nata nel 2007 come un blog rivolto agli studenti delle scuole superiori, oggi community di riferimento per quanto riguarda gli studenti sì, ma anche tutta la generazione Z, i “post Millennials, ovvero i giovani nati dopo il 1995. A fine 2016 arriva l’annuncio della trasformazione della testata in Gruppo OneDay, che riunisce i marchi ScuolaZoo, l’agenzia di comunicazione ZooCom, il tour operator SGTour e il coworking C32. Nel 2016 il fatturato complessivo è stato di 10 milioni di euro, con una crescita annua media del 40% e un totale di 62 dipendenti a tempo pieno. In un’intervista al Corriere della Sera il fondatore Paolo De Nadai, 27 anni, ha spiegato il segreto di questa crescita con due parole chiave indispensabili per parlare il linguaggio dei 18enni, che piacerebbero molto anche al direttore del Washington Post: ascolto e innovazione.
Sul rapporto con la propria community, innovando con un linguaggio dei video pensati per essere fruiti in mobilità e sui social network investe da tempo una realtà come Al Jazeera con Aj Plus, canale nato esclusivamente come un’app mobile e con un profilo su Facebook, Twitter e Instagram, per cui i reporter usano quasi esclusivamente il telefono cellulare per raccontare quello che vedono nelle piazze di tutto il mondo. In Italia su questo fronte ci sono esperienze come quella portata avanti da Fanpage.it, media puramente digitale nato nel 2010 sotto la direzione di Francesco Piccinini. Prima testata per numero di fan su Facebook in Italia, riesce a coinvolgere migliaia di persone grazie alla pubblicazione di video reportage più impegnati e a un nuovo canale dedicato alle ricette con 25 milioni di persone raggiunte ogni settimana.
Altre piattaforme social come Snapchat e Instagram Stories, diffuse soprattutto tra i più giovani, sfidano i produttori dell’informazione a trovare nuovi canali per raggiungere la propria audience. Il New York Times ha da poco deciso di portare su Snapchat la sua edizione del “morning brief”, la selezione di notizie per “cominciare bene la giornata” curate dai suoi redattori. E la diffusione dei Facebook live, ora disponibili per chiunque, anche in Italia hanno spinto testate come Donna Moderna, in collaborazione con Samsung, a creare format per incontrare la propria comunità di lettori online e offline con le Colazioni nelle librerie Mondadori di tutta Italia: appuntamenti di un’ora insieme ad esperti di cultura digitale dal vivo, con un pubblico in sala, e contemporaneamente online, sulla pagina Facebook del giornale.
Sperimentare, puntare sull’integrazione tra competenze della carta, con la creazione di un team di “rapida risposta” alle breaking news, sono stati i fattori chiave che hanno permesso al Post di diventare il secondo quotidiano degli Stati Uniti per numero di lettori, dopo il New York Times. Un giornale che non produce solo informazione ma ha creato un cms, un content management system (la struttura per amministrare i contenuti del sito) di cui ha il copyright e che vende a terzi, per un totale di 100 milioni di dollari di ricavi.
A sperimentare l’avvio di un digital lab interno alla redazione, anzi, alle redazioni, da quest’anno c’è anche il Gruppo GEDI, nato dalla fusione tra gli editori dell’Espresso, della Repubblica e della Stampa – con la formazione di una squadra di giornalisti, grafici e sviluppatori dedicati all’innovazione e alla creazione di contenuti multimediali per Repubblica.it e per gli altri siti del gruppo. Il lab, guidato dal giornalista Andrea Iannuzzi, produce mappe, inventa visualizzazioni e modi nuovi per la fruizione delle news, raccontando gli esperimenti, le buone pratiche interne e il processo di creazione dei contenuti attraverso un b log su Medium.
Mantenere alto il valore del proprio lavoro è la chiave con cui anche il New York Times vuole affrontare i prossimi anni: “basta produrre notizie di basso impatto”, si legge in un documento strategico che affronta le sfide del giornale fino al 2020. “Non sono contenuti giornalistici per cui valga la pena pagare”, e il New York Times ha invece bisogno di puntare su qualità ed esclusività visto che il suo modello digitale si basa su un paywall poroso per cui dopo un certo numero di articoli al lettore è richiesto il pagamento di una sottoscrizione. A gennaio 2016 anche il Corriere della Sera ha deciso di lanciare un paywall per aumentare i guadagni dal digitale. È il primo esperimento di questo tipo in Italia per un quotidiano a tiratura nazionale, con risultati positivi se si guarda alla crescita rispetto al lancio: più 20% secondo i dati pubblicati da Engage a maggio 2017, per un totale di 35mila abbonati. È che nel nostro Paese lo scenario è meno incoraggiante rispetto all’estero: solo il 4% dei cittadini è abbonato a un giornale e di questi solo il 3% a una versione digitale[2].
Negli Stati Uniti, specialmente dopo l’elezione di Trump, si assiste invece all’aumento della spesa per quanto riguarda il settore dell’informazione, perché i cittadini sono sempre più esigenti nei confronti della qualità. Lo conferma un sondaggio di Reuters per cui il 90% dei lettori afferma di consultare i siti di notizie di cui si fida per verificare la fonte di breaking news, soprattutto di news brand tradizionali. Non è un caso che il New York Times abbia registrato 267mila abbonati in più nel quarto trimestre nel 2016 e 308mila nei primi mesi del 2017, arrivati per la maggior parte dopo l’elezione del 45° presidente degli Stati Uniti. Che non ha avuto mezzi termini nel definire testate come il New York Times e la Nbc, la Cbs, la Abc e la Cnn come “fake news media” e nemici del popolo americano”.
Il tema delle notizie false e della post-verità, parola dell’anno per l’Oxford dictionary, sta influenzando gran parte delle iniziative da parte degli editori e delle tech company, come la stessa Facebook, accusata di voler alimentare il mercato delle notizie false perché comunque fonte di profitto. Per rispondere a queste accuse Mark Zuckerberg ha inserito un bottone “anti bufala” per permettere agli utenti di segnalare contenuti potenzialmente falsi e ha annunciato l’assunzione di 3mila “moderatori” incaricati di controllare e verificare i contenuti pubblicati sulla piattaforma.
Ma il problema non è la tecnologia, né la richiesta a un soggetto privato come Facebook o Google a decidere la differenza tra opinione, satira e bufala, aree in cui le fake news possono essere più facilmente confondibili. La questione chiave è piuttosto la cultura dell’informazione, come ha dimostrato un’indagine avviata dall’Università di Stanford per capire come i nativi digitali interagiscono con i contenuti online: gli intervistati sembrano incapaci di controllare la fonte delle notizie trovate sui social media, danno lo stesso valore a informazioni di testate o diffuse da imprese e lobby. Non controllano i link con le fonti e non distinguono le notizie dai contenuti sponsorizzati. Per affrontare questo problema nascono realtà come l’associazione italiana Factcheckers.it, che riunisce un gruppo di giornalisti, social media verifiers e sviluppatori, in collaborazione con il Poynter Institute, tre università italiane (Siena, la Normale e Padova) con Sky Italia, che si rivolgono al mondo della scuola, in particolare agli insegnanti, per aiutarli ad avvicinare i ragazzi all’analisi critica dell’informazione online, e soprattutto di fornire loro gli strumenti di base per trasformarsi in giovani “verificatori delle notizie”.
Ma anche se i dati legati alla fruizione delle informazioni ci offrono un quadro preoccupante o, quanto meno, indicano l’esigenza di approfondire la cultura della rete da parte di governo e istituzioni, e non di allontanarla, sono molti i cittadini che continuano a usare internet per attivarsi a sostegno della propria comunità.
Dalle molteplici iniziative nate a sostegno delle aziende messe in crisi dal terremoto in centro italia, come la piattaforma Dajemarche.it, sito di e-commerce aperto da un gruppo di volontari a supporto di aziende ed attività commerciali marchigiane, e al progetto Terremotocentroitalia.it, nato dall’esigenza di verificare le informazioni relative al terremoto a partire dall’agosto 2016, e poi continuato a essere alimentato con i fabbisogni dei cittadini dei luoghi colpiti dal sisma, grazie a un gruppo di volontari digitali sparsi in tutta Italia e al contributo sul campo degli operatori dell’organizzazione non governativa Action Aid.
Le piattaforme digitali aiutano a entrare in contatto con persone altrimenti distanti dal punto di vista sociale e geografico anche quando si tratta di far nascere nuovi business. Non solo in ambito culturale e sociale, ma anche in un settore come il fashion. È attraverso la rete che Silvia Stella Osella, designer tessile, ha conosciuto le due ragazze con cui poi ha fondato Iluut, azienda di abbigliamento etico e sostenibile: una call su YouTube partita dalla finlandese Elina Cerell per creare un marchio con il minor impatto ambientale possibile e la capacità di documentare in trasparenza tutto il processo attraverso cui vengono prodotti gli abiti. Rispondono Osella da Milano e la fashion designer Vj Taganahan da Londra. Dall’incontro parte la collaborazione e poi la campagna sulla piattaforma di crowdfunding Indiegogo per lanciare il marchio, di cui le tre professioniste disegnano gli abiti co-progettandoli insieme alle loro follower su Facebook e Instagram.
Il motore creativo della co-creazione, è quello che ha spinto anche un’azienda come Tim a lanciare il progetto #WikiTim, insieme al Wikimedia Italia (l’associazione dietro l’enciclopedia online Wikipedia). Progetto che finora ha fatto tappa in tre università italiane (Urbino, Politecnico di Milano e Luiss Business School di Roma) con tre eventi di “Edit-a-thon”, giornate di scrittura e pubblicazione di sette voci su Wikipedia nell’ambito della cultura economica e digitale, tra cui “Transazione fiscale”, “Sovraindebitamento” e “Pianificazione di progetto”.
Approfondimenti e valorizzazione dei contenuti sono invece alla base del progetto Italiani.coop, nato come strumento di ricerca e analisi curato dall’ufficio Studi Coop, per rielaborare i dati del Rapporto Consumi & Distribuzione e raccontare i cambiamenti che contraddistinguono la vita quotidiana degli italiani attraverso una piattaforma di data visualization. Segno che anche i brand hanno compreso l’importanza dei dati e delle opportunità che la valorizzazione dei propri contenuti può dare in termini di reputazione e servizio agli utenti. Ma il data visualization è solo uno degli strumenti a disposizione del mondo dell’impresa che vuole valorizzare i propri contenuti e codici valoriali. Un altro è sicuramente lo storytelling. Ecco perché scuole come la Holden di Torino, da sempre rivolte a sviluppare tecniche di scrittura in tutti i versanti della narrazione secondo il principio della contaminazione, hanno di recente sviluppato interessanti progetti come Open Power, realizzato con il gruppo ENEL, che ha coinvolto 200 top manager nel mondo, chiamati alla costruzione di una nuova narrazione aziendale con veri e propri laboratori di scrittura creativa. Dallo storytelling al digital storytelling il passo è breve: per il gruppo FCA la Holden ha infatti prodotto otto cortometraggi sul tema delle competenze manageriale e dell’economia circolare, oltre ai video emozionali realizzati a favore del lancio della campagna di sottoscrizione mondiale di Slow Food.
Di queste e altre tendenze nel mondo della comunicazione digitale se ne continua a parlare nei diversi festival su comunicazione e giornalismo in tutta Italia: sempre più forte la presenza delle media company come sponsor al Festival di Giornalismo di Perugia (Google, Amazon e Facebook), luogo che rimane comunque privilegiato per il dibattito sul digitale, non solo per i giornalisti, ma per chiunque svolga una professione nell’ambito della produzione dei contenuti. Al panorama degli eventi culturali quest’anno si è aggiunto per la prima volta a Trieste Parole Ostili, laboratorio di lavoro e di confronto sul linguaggio utilizzato su social media e il web. Cultura legata alla rete, ma non solo, diffusa sul territorio è quella portata dal marchio delle conferenze Ted, grazie alla formula TedX, eventi locali auto organizzati che raccolgono persone per condividere un’esperienza simile a quella che si vivrebbe durante una conferenza TED. L’Italia in questo campo è stata anche pioniera con l’iniziativa TED-Ed Clubs, 13 ore di lezioni online in collaborazione con Ted Global, secondo un Protocollo d’intesa triennale che permetterà ai docenti e agli studenti delle scuole secondarie di II grado di tutta Italia di avvalersi di questi percorsi formativi in italiano e in inglese.
Se nel mondo della comunicazione digitale la libera professione è la tipologia di lavoro più diffusa, non stupisce che ogni anno gli appuntamenti del Freelance Camp, organizzato dalla scuola Digital Update, siano sempre sold out. Luogo privilegiati di incontro e di formazione è anche il summit di Architecta, associazione che riunisce gli architetti dell’informazione in Italia, appuntamento fondamentale per la formazione di quelle figure professionali in grado di comprendere la struttura del web dagli aspetti più tecnici a quelli di stile, design e contenuti.
Dal punto di vista delle imprese la ricerca di professionisti va sempre più spesso nella direzione di unire le competenze in ottica cross-mediale, con la continua attenzione ai dati: non si può essere un videomaker senza conoscere i linguaggi delle principali piattaforme social, così come scrivere e progettare contenuti per il web deve andare di pari passi con il saper leggere le metriche che indicano il raggiungimento degli obiettivi del piano editoriale; e un art director dovrà essere in grado di progettare campagne con attenzione alla user experience mobile.
Il fil rouge che accompagna tutte le tendenze osservate, dal Washington Post alla più piccola piattaforma di attivismo digitale, è quello dell’utente – delle persone – al centro. Ricordandosi che per chiunque lavori nel digitale valgono le parole di Paul Ford, insegnante di Content Strategy all’università delle Arti Visuali di New York: “il tempo che trascorri lavorando non è tuo, ma delle persone che useranno le tue creazioni”. Che siano applicazioni social, siti internet o articoli di giornale.
[2] Digital News Report 2016, Reuters Institute for the Study of Journalism dell’Università di Oxford.