Dalla rinascita dei blog aziendali alla scelta di prendere posizioni in campo etico e politico, con campagne anche divisive per il pubblico, i brand tornano a lavorare sul rafforzamento della propria identità, mettendo al centro il rapporto con i consumatori e la loro opinione. Cosa ha funzionato in questo ambito e quali sono state le migliori buone pratiche italiane negli ultimi mesi.

Il giornale brasiliano Foha do Sau Paolo. L’azienda di prodotti di cosmetica Lush, il gruppo Unicredit. Cos’hanno in comune questi tre brand? Il fatto che tutti e tre hanno deciso di abbandonare Facebook e le piattaforme collegate Instagram e Messenger.  “Facebook è diventato un terreno inospitale per chi vuole offrire contenuti di qualità”, aveva dichiarato un anno fa Sérgio Dávila, direttore del quotidiano brasiliano, con una pagina da 6 milioni di fan, oggi ferma con gli aggiornamenti all’8 febbraio 2018. Poi è arrivata Lush UK, che ha deciso di sospendere le pubblicazioni nei suoi canali Facebook e Instagram, puntando tutto sulla community: “Vogliamo che l’essere social torni nelle mani delle nostre community, le persone che possono parlare per noi – usando i loro account social, i loro feed e i nostri hashtag”. Una scelta basata su un’analisi dei dati delle persone raggiunte in media dai post organici, sempre più penalizzati dall’algoritmo di Facebook: solo il 6% dei fan leggono i contenuti della pagina, una cifra davvero minima se paragonata all’open rate del 20% delle newsletter del brand, come comunicato dalla stessa Lush sul blog aziendale. In Italia il primo brand a prendere questa decisione drastica è Unicredit, con un messaggio pubblicato nella propria pagina Facebook, nel quale vengono spiegate anche le motivazioni: “Valorizzare i canali digitali proprietari per garantire un dialogo riservato di alta qualità“.

Se i contenuti prodotti sono di valore, se le persone sono disposte a uscire dai social per andare a cercarli, ha pienamente senso oggi costruire una propria identità editoriale, anche per essere ripagati nel lungo periodo, perché quei contenuti continueranno a essere raggiungibili anche in caso in cui una tech company decida di chiudere i battenti, come fu il caso di MySpace e quei migliaia di brani musicali scomparsi per sempre a causa di “un progetto di migrazione dei server”.

La decisione di investire nei canali proprietari è un trend: oggi il 36% delle aziende inserite nella classifica Fortune 500 ha un blog, l’89% ritiene che questi spazi saranno importanti nei prossimi cinque anni e il 60% li considera vantaggiosi per il proprio business. Il canale maggiormente utilizzato per pubblicare e distribuire i contenuti (79%) è quello del proprio corporate blog. È una strada che in Italia hanno intrapreso aziende come Eni, puntando sul brand journalism e creando una redazione vera e propria che pubblica contenuti dietro il marchio Eniday, ma anche Adecco con il blog Moming Future, con interventi che si concentrano sul lavoro che cambia con l’innovazione tecnologica, e Alce Nero con il sito Fatti di Bio.

Il vantaggio per un brand è poter comunicare la propria identità, gli aspetti sociali di cui si preoccupa e gli elementi da cui trae ispirazione e che meritano quindi di essere condivisi con il suo pubblico. Per lo stesso principio alcune aziende hanno deciso di puntare anche sulle riviste cartacee: a livello internazionale c’è Airbnb che a partire da gennaio offre a tutti coloro che affittano case degli Stati Uniti un abbonamento annuale gratuito alla sua rivista cartacea e Netflix sta per fare altrettanto, e c’è Stripe, la piattaforma di gestione dei pagamenti online per il business, che ha aperto la propria casa editrice. Oltre all’autenticità, sono premiati i temi contemporanei, grafiche accattivanti e firme autorevoli. Tra i casi italiani, ne ricordiamo tre che tracciano una via tutta italiana, quella dei brand magazine di viaggio: La freccia di FS, Ulisse di Alitalia, Atmosphere di Meridiana.

E se le aziende diventano editori, chi storicamente produce cultura e informazione come sua mission, cosa dovrebbe fare? Valorizzare la community e le persone, anche quelle che fanno parte dell’azienda stessa. Secondo una ricerca di Forbes l’82% dei consumatori si fida di più di un testimonial interno e i dati dell’agenzia di pubbliche relazioni Msl affermano che le comunicazioni aziendali vengono condivise sui social 24 volte di più se provengono da colleghi piuttosto che dal brand stesso.

L’ha ammesso lo stesso Facebook alla conferenza degli sviluppatori: l’algoritmo privilegia gli scambi tra persone, i link e i post che vengono condivisi tramite messaggi privati, i commenti tra amici, non tra pagina e persone. Serve un grande lavoro di presa di coscienza della propria identità per avventurarsi in questo cammino: in Italia ci sta provando Generali Italia con Storymaker Club, il club dei colleghi che contribuiscono al racconto delle iniziative del brand.

E se a parlare fossero invece i miei clienti? È quello che ha provato a fare l’agenzia di viaggi italiana Weroad, con una campagna di comunicazione offline che mettesse al centro le facce delle persone della community: “non abbiamo voluto raccontarci con foto prodotte o con l’uso di attori ma direttamente con le foto UGC dei nostri viaggi. Anzi, con i selfie, scattatati spontaneamente dai WeRoaders con i loro smartphone”, racconta Fabio Bin, uno dei fondatori. Anche l’agenzia di comunicazione Web Ranking nel 2018 ha usato il community storytelling con la pubblicazione dell’ebook La mia storia con internet, per raccontare il “bello della Rete, di come ha cambiato le nostre vite, delle opportunità che ha creato, delle occasioni di crescita e di lavoro che ci permette di avere e condividere ogni giorno”. Le persone sono state invitate a condividere esperienze personali con l’hashtag #lamiastoriaconinternet, in occasione dei trent’anni della rete e dei 20 anni dell’agenzia. Le migliori sono state poi scelte per la pubblicazione dell’ebook.

Coinvolgere, sorprendere, creare format immersivi e rendere le persone “dipendenti” dai miei contenuti è un altro trend di questi ultimi mesi, grazie alla crescita esponenziale del consumo di storie su Instagram: 19 milioni gli utenti mensili del social network in Italia, di cui il 75% guarda le storie dei profili seguiti. Social di perditempo? Non la pensa così la New York Public Library, che ha iniziato a pubblicare capolavori della letteratura internazionale “da guardare”, con video e immagini realizzati da artisti e designer. E c’è chi crede che il format del video verticale, che occupa tutto il telefono, e poi scompare, tipico della storia di Instagram, può essere usato anche per educare e raccontare la Storia, quella con la S maiuscola: è il caso del progetto di Eva.stories, che dal primo maggio racconta la vita, e la morte, di Eva Heyman, 13 anni, ebrea di Nagyvárad, Ungheria. I contenuti arrivano dal diario scritto da Eva e sono pubblicati su Instagram con l’obiettivo di ricordare anche ai più giovani cosa è accaduto durante la Seconda Guerra Mondiale, con il plauso del museo dell’Olocausto Yad Vashem che ha fatto sapere che l’uso dei social media per commemorare le vittime è “legittimo”.

Un piccolo caso studio nel mondo della cultura italiana è quello di Tlon, casa editrice di testi di filosofia e spiritualità e dall’altro impresa di ideazione eventi culturali, fondata da Andrea Colamedici e Maura Gancitano. I due filosofi credono che stare sulle piattaforme social sia anche una questione di partecipazione e di responsabilità: nei loro account (seguiti da 8mila persone su instagram, 70mila su Facebook) parlano quotidianamente di politica, etimologia delle parole di uso comune, filosofia del quotidiano, e stimolano dibattiti sul mondo della cultura e dell’impegno civile in Italia.

A questo mondo si affacciano anche le aziende più grandi, per avvicinarsi al pubblico dei millennial e della generazione Z: c’è Buitoni, che si è affidato alla foodblogger Ilaria Mazzarotta per proporre ricette stagionali e settimanali (grazie alla campagna realizzata dall’agenzia social globale We are social che conta un team di oltre 180 professionisti in Italia), e

Toyota, premiata da Facebook Italia ed Engage per la migliore creatività pubblicitaria su Instagram con le Storie della campagna Start Your Impossible, lanciata globalmente in occasione dei Giochi Olimpici e Paralimpici 2018. Bebe Vio è la protagonista dei video che hanno raggiunto oltre 3,5 milioni di persone, permettendo all’azienda di comunicare il suo nuovo posizionamento a favore della mobilità senza barriere con il progetto Mobility For All. Toyota non è la prima a “schierarsi” nel sociale: sembra anzi che nell’ultimo anno i brand abbiano deciso di usare il marketing per esprimere scelte politiche, non sempre in linea con quelle dei propri consumatori. Stiamo parlando di Benetton in Italia, con la campagna firmata da Toscani che ritraeva persone aggrappate ad un gommone che indossano dei salvagente arancioni in attesa di essere tratte in salvo e  delle donne e dei bambini in fila durante i primi soccorsi assistiti da un’operatrice della Croce Rossa, e di Gillette, il cui video su come dovrebbero essere i veri uomini ha ricevuto più dislike che like.

Ma il 75% degli intervistati in Italia (indagine basata su 1000 consumatori) vuole che le aziende si impegnino per risolvere problemi a sfondo sociale. E il 72% si aspetta che le multinazionali guidino lo scambio di idee, prodotti e cultura anche in caso di politiche isolazioniste promosse dai Governi.

È giusto quindi fare prendere posizione? Sì, se in linea con la propria mission e visione del mondo, e se si tratta di scelte che vanno al di là della comunicazione e del marketing, aprendo la strada a vere e proprie collaborazioni con il territorio. Airbnb ha lanciato di recente Esperienze per il sociale, un modo per raccogliere fondi per le organizzazioni non profit, e a Palermo ha dato il suo sostegno concreto a un percorso sperimentale di partecipazione civica, nato dall’idea di destinare una quota della tassa di soggiorno al finanziamento di progetti, proposti e scelti dai cittadini, di riqualificazione territoriale e di sviluppo locale attraverso la promozione turistica.

Spunti sull’etica e sul sociale non mancano neanche nel mondo del tech e dell’intelligenza artificiale: dalle critiche sull’uso delle voci femminili negli assistenti vocali e il rischio che le nuove generazioni crescano con l’idea che le donne siano al loro servizio, a un report dell’Al Now Institute, che evidenzia il problema della mancanza di “diversità” nello sviluppo e nella ricerca di questi software perché troppo “bianca e troppo maschile”. Se a insegnare alle macchine a “pensare” e agire sono uomini, occidentali, quale sarà l’esito? Sono diversi i casi di discriminazione già segnalati, come quello di una studentessa di un college americano, originaria dello Sri Lanka e musulmana, identificata per errore da un software di riconoscimento facciale come una sospettata degli attentati di Pasqua. Il mercato è agli albori in Italia, con una spesa per lo sviluppo di algoritmi di intelligenza artificiale di appena 85 milioni di euro nel 2018, ma dalle grandi prospettive. Attualmente solo il 12% delle imprese ha portato a regime almeno un progetto di intelligenza artificiale, e sono diverse anche le testate che ci stanno lavorando: nel febbraio di quest’anno, in occasione del Festival di Sanremo, il Corriere della Sera ha pubblicato per la prima volta una serie di articoli  realizzati in modo automatico, per coinvolgere il lettore in una sorta di macchina del tempo dei ricordi legati alle canzoni del festival. Non solo per migliorare la fruizione dei contenuti, ma i chatbot possono anche essere usati per sperimentare nuove forme di collaborazione interne all’azienda: è il caso dell’agenzia eFM che con Grace, questo il nome del bot, gestisce le postazioni di lavoro in azienda. Altri settori di applicazione sono quelli del turismo, per esempio, grazie alla possibilità di sfruttare i bot per il customer care: con BotMagellano, sviluppato dalla web agency Marketing Informatico, le strutture ricettive possono raccogliere le esigenze dei clienti e creare il proprio database di contatti. Nell’ultima conferenza degli sviluppatori Facebook ha detto che “il futuro è privato”: chi lavora bene per valorizzare le persone e migliorare la relazione con i propri consumatori, anche nella cura di una chat automatica, ha già vinto.