Realizzato in collaborazione con Annalisa Cicerchia e Catterina Seia, Associate Founder CCW-Cultural Welfare Center[1]
Questo contributo fa parte della rubrica #iosonocultura, parte del Decimo rapporto IO SONO CULTURA realizzato da Fondazione Symbola, Unioncamere e Regione Marche in collaborazione con l’Istituto per il Credito Sportivo.
Il Welfare culturale promuove un modello integrato di benessere degli individui e delle comunità, attraverso pratiche fondate sulle arti visive, performative e sul patrimonio culturale.
Fondato sul riconoscimento, sancito anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità in uno studio rivoluzionario pubblicato a fine 2019, dell’efficacia delle attività culturali e creative come fattore di promozione del benessere individuale (dalla salute fisica alla soddisfazione per la vita) e della coesione sociale, per favorire l’accesso e lo sviluppo di capitale sociale, individuale e di comunità locale.
Sperimentato da almeno 30 anni, soprattutto nei Paesi scandinavi e nel Regno Unito, il Welfare culturale presuppone la collaborazione interdisciplinare e l’integrazione di scopo fra sistemi istituzionali connessi alla salute, alle politiche sociali, alla cultura e creatività. In Italia il ricorso a pratiche di questo tipo sono numerose e in via di consolidamento negli ultimi due decenni.
La Nuova Agenda Europea della Cultura 2030 (maggio 2018) indica come pilastri delle prossime decadi i crossover culturali, ovvero le relazioni sistemiche e sistematiche con altri ambiti di policy, un tempo debolmente interconnessi, in primis quello tra cultura e benessere. Perché il Welfare culturale si innesti nella quotidianità del Paese, diventando leva sociale ed economica, occorre superare la frammentarietà degli interventi e puntare ad azioni di sistema.
Per illustrare le opportunità di questo proficuo legame, abbiamo scelto tre storie di eccellenza italiana, esempi collaudati di alleanza tra il settore culturale e creativo e il mondo della cura, della salute e del benessere.
Progettano servizi culturali di carattere fortemente innovativo, a impatto sociale, senza piegare la ricerca artistica a supplenze di politiche sociali o sanitarie. Creano su basi scientifiche nuove risposte a bisogni specifici di salute, benessere, inclusione ed empowerment di segmenti di popolazione: le persone con Parkinson o con demenza, i bambini in riabilitazione e i loro carer. Pensati e realizzati su scala locale, grazie alla collaborazione con il mondo della ricerca e alla partecipazione a reti internazionali, oltre che a progetti europei, sono già orientati ad espandersi su scale più ampie. Attraverso questo approccio, arte e cultura, contribuiscono al benessere delle persone e delle comunità, con una visione della salute che punta a massimizzare i fattori dello stare bene (salutogenesi).
Danzare al museo per il Parkinson, è quello che accade dal 2013 a Bassano del Grappa, città che lega il suo nome alla danza contemporanea. Qui, le persone che vivono con il morbo di Parkinson si incontrano nelle sale del Museo Civico per danzare insieme tra i capolavori di Canova, Dal Ponte e Hayez. E’ Dance Well – movement research for Parkinson, una pratica artistica inclusiva, rivolta principalmente a loro, attivata, ideata e promossa dal Centro per la Scena Contemporanea Casa della Danza. Questa pratica ha origine in una sperimentazione condotta con successo da quasi venti anni negli USA e nei Paesi Bassi. Il fine di Dance Well, gratuito e aperto a tutti, accessibile a ipovedenti e non vedenti, è “l’arte attraverso l’espressione del proprio corpo. I partecipanti sono “dancers” e proprio come danzatori – non come “persone col Parkinson” – affrontano le classi di danza”[2]. Il luogo di azione, il Museo Civico, costituisce parte integrante dell’esperienza, che prevede anche l’incontro con i visitatori delle collezioni.
Il percorso, in primo luogo artistico, dialoga con diverse strutture sanitarie, applicando varie strategie riabilitative, non ancora sostitutive della fisioterapia tradizionale, ma con effetti positivi sui sintomi e sulla qualità di vita delle persone con Parkinson. Il senso dell’equilibrio e del movimento migliora, si coltiva la creatività e si esplorano nuove forme di espressione. Si sviluppano relazioni interpersonali e si contrasta l’isolamento che spesso accompagna la malattia.
Dal 2015 Dance Well è esportato in altri territori, tra cui la Casa di Cura Villa Margherita di Arcugnano (Vi) e dal 2016 anche a Schio, a cura della Fondazione del Teatro. Più di recente, si sono attivati La Lavanderia a Vapore a Torino, Palazzo Strozzi Firenze e Vignola. Da ottobre 2019 la danza per il Parkinson è arrivata in Giappone: a Tokyo (al Metropolitan Art Museum e all’Istituto Italiano di Cultura), a Kyoto (Mizunoki Museum of Art, Kameoka) e a Kanazawa (21st Century Museum of Contemporary Art). Dance Well è annoverata tra i casi di interesse scientifico nel libro Dancing with Parkinson’s di Sara Houston[3], ricercatrice dell’Università di Roehampton e nella pubblicazione dell’OMS sulle buone pratiche artistiche per il benessere psico-fisico pubblicata alla fine del 2019[4].
Il progetto Musei Toscani per l’Alzheimer è una rete fra i musei della Regione che intendono sviluppare, con i propri dipartimenti educativi, attività per le persone con demenza e per coloro che se ne prendono cura. Alla progettazione e alla conduzione degli incontri collaborano professionisti con competenze specifiche ed esperienza in ambito geriatrico e di cura delle demenze, cosi come nell’ambito artistico, educativo e museale. Questa ibridazione consente di elaborare attività inclusive per le persone con decadimento cognitivo o disturbi del comportamento più importanti, coinvolgendo i carer, rafforzandoli con possibili strategie di comunicazione e approcci relazionali efficaci per gestire questa complessità. Non si tratta di visite speciali al museo, ma di un itinerario partecipato e condiviso, lungo mesi, di interazione creativa, quando possibile anche sensoriale, con le opere d’arte.
La storia viene da lontano e ha origine nell’impegno assicurato fin dai primi anni 2000 dal Mo.Ma di New York, attraverso studi, sperimentazioni e la produzione di strumenti didattici per operatori museali e familiari di persone con demenza, finalizzati a rendere il museo accessibile anche alle persone con disabilità cognitive. Nel tempo, i progetti hanno portato alla luce impatti significativi dell’attività artistica mirata e guidata all’interno dei musei sulla qualità stessa della vita delle persone affette da demenza e di chi se ne occupa. Dall’obiettivo dell’accessibilità si è passati alla sperimentazione di terapie della reminiscenza attraverso oggetti artistici, fino alla interazione creativa. In Italia il testimone è stato raccolto da due musei fiorentini: Palazzo Strozzi e Marino Marini. Project leader del progetto di formazione europeo MA&A Museums Art & Alzheimer’s, che ha coinvolto cinque paesi tra il 2015 e il 2017, il museo Marino Marini sviluppa da circa dieci anni diverse linee di azione: pratica settimanale, formazione nei confronti di educatori museali e operatori geriatrici, con un metodo e linee guida che possono considerarsi ormai validate. Oggi sono più di 60 i musei toscani che, sulla scia di quella esperienza pilota, hanno formato i propri operatori e avviato progetti. Anche in Piemonte, Emilia-Romagna, Umbria e Lazio cresce il numero di istituzioni museali attive nello sviluppo di programmi mirati al benessere delle persone con demenza e delle loro famiglie. Cresce – ed è un dato della massima rilevanza – il numero di esperienze riconosciute e sostenute dalle istituzioni regionali e locali.
Nato nel 1984, InfoMus Lab di Genova è centro di incontro tra la ricerca scientifica e tecnologica e la ricerca e produzione artistica e culturale, in un contesto di collaborazione interdisciplinare. Da questa prima esperienza, nel 2005 è nato il centro di ricerca internazionale Casa Paganini – InfoMus, con sede in un edifico che è sito monumentale, ricco di affreschi e reperti archeologici, nell’antico complesso conventuale di Santa Maria delle Grazie la Nuova, nel cuore della Genova più antica.
Il centro utilizza teorie artistiche e umanistiche come fonte d’ispirazione per la ricerca scientifico-tecnologica, sviluppando modelli computazionali del comportamento non verbale; sistemi multimediali innovativi; interfacce uomo-macchina multimodali; nuovi sistemi per la fruizione attiva di musica e contenuti audiovisivi; sistemi interattivi per musei; nuove interfacce e sistemi multimediali interattivi per terapia e riabilitazione. Allo stesso tempo valorizza i risultati della ricerca scientifica e tecnologica come fonte di ispirazione per linguaggi e progetti artistici, promuovendo nuove prospettive e paradigmi come l’interazione espressiva full-body per musica, teatro e danza; l’analisi del coinvolgimento del pubblico; la liuteria digitale.
Dal 2014, il centro di ricerca fa parte del laboratorio congiunto di riabilitazione aumentata ARIEL con l’ospedale pediatrico Gaslini di Genova, che nasce allo scopo di ideare piattaforme di gioco basate sull’analisi automatica e sulla sonificazione interattiva del movimento per supportare i bambini, in ospedale e a casa, nel loro percorso riabilitativo in un’ottica di empowerment, intrattenimento e inclusione.
Tutti e tre i casi proposti presentano importanti elementi ricorrenti.
Ognuno di essi si realizza entro una cornice di patrimonio culturale, nella forma del museo o del sito storico-artistico: luoghi densi di significato, con un legame stratificato con il territorio e con le emergenze materiali che la comunità ha deciso di preservare e di valorizzare. Tutti sono costruiti su una robusta piattaforma di interazione collaborativa fra discipline diverse, ab origine. C’è poi l’investimento di risorse professionali altamente qualificate da parte di una o più organizzazioni (che siano istituzioni, imprese, enti del terzo settore) nella produzione di pratiche con propri canoni, procedure e protocolli, i cui impatti in termini di salute e benessere sono rilevati e analizzati. C’è la tensione a consolidare le metodologie e a renderle replicabili, attraverso lo sviluppo di strumenti di formazione. C’è una elevata componente di innovazione: di ideazione, prodotto, processo, e tecnologica. C’è una aspirazione congenita alla dimensione internazionale. Infine, c’è in tutte e tre le storie un rapporto stabile tra il mondo culturale, quello sanitario e della ricerca medica, in termini di orientamento, di sperimentazione, di monitoraggio e di valutazione.
Di storie così, esperienze nate sui confini, ce ne sono molte nel mondo e in Italia, da più di 30 anni.
Oltre ai progetti che aprono i luoghi e le risorse del patrimonio, delle arti visive o delle arti performative ad attività finalizzate alla cura, alla riabilitazione, al sostegno, all’empowerment, molti altri portano l’arte e la cultura nei luoghi della cura: nelle corsie di ospedale, negli ambulatori, negli hospice. ll fenomeno della rigenerazione umana a base culturale cresciuto negli ultimi dieci anni nelle aree urbane fragili come in quelle interne, si muove in questa direzione, ponendosi l’obiettivo di capacitare persone e comunità.
Anche se ancora in modo frammentato, pulviscolare, confinate nel mosaico delle buone pratiche, queste esperienze stanno definendo un nuovo campo.
Anticipano una dimensione nuova della nozione di welfare che oggi si tende a definire welfare culturale (incluso nel dizionario Treccani della cultura[5]), che integra dimensioni sociali e di salute. Un modello che si fonda su un corpo di evidenze consolidate quanto poco note – ai mondi culturali, delle professioni sanitarie e sociali, dell’educazione -, che acclarano la relazione positiva tra partecipazione culturale e benessere, convergendo con gli esiti delle ultime frontiere scientifiche (dalle neuroscienze, all’epigenetica, alla PNEI-psiconeuroendocrinoimmunologia) che presentano i sistemi biologici come tra loro correlati, e la salute come esito dell’interazione complessa di variabili bio-psico-sociali.
Questa relazione è riconosciuta anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità con un recentissimo studio[6], il più ampio mai realizzato, sull’efficacia di alcune specifiche attività culturali, artistiche e creative, come fattore di: promozione della salute in ottica biopsicosociale (anche legato all’acquisizione di abilità di coping[7]); benessere individuale e soddisfazione per la vita, grazie ai suoi aspetti relazionali, al potenziamento delle risorse (empowerment) e della capacità di apprendimento (sviluppo delle life skill[8] necessarie all’autorealizzazione); contrasto alle disuguaglianze in termini di salute e coesione sociale per favorire l’accesso e lo sviluppo di capitale sociale, individuale e di comunità; invecchiamento attivo, contrasto alla depressione e al decadimento psicofisico derivante dall’abbandono e dall’isolamento; inclusione delle persone con disabilità anche gravi e in condizioni di marginalizzazione o svantaggio, anche estrema (senza fissa dimora, detenuti, ecc.); potenziamento complementare di percorsi terapeutici tradizionali; supporto alla relazione medico-paziente, attraverso le medical humanities e la trasformazione fisica dei luoghi di cura; supporto alla relazione di cura, anche e soprattutto per i carer non professionali; mitigazione e rallentamento per alcune condizioni degenerative (come demenze e il morbo di Parkinson).
Abbiamo incluso queste storie nel Rapporto Io sono Cultura di quest’anno perché riteniamo che, tra le tante strade attraverso le quali il mondo della cultura e della creatività concorre allo sviluppo sostenibile del nostro Paese, questa meriti una particolare attenzione e un salto di qualità nella percezione del suo impatto sociale, della sua rilevanza politica, soprattutto in un momento in cui le economie, colpite dalla pandemia, sono chiamate non solo a ricostruirsi, ma a riconvertirsi, come afferma Sergio Fabrini, “lungo le linee della neutralità ambientale, della digitalizzazione economica, dell’inclusione sociale[9]”, del benessere diffuso delle persone in contrasto alle diseguaglianze. Per non parlare della sua rilevanza economica, sia in termini di potenziale riduzione dei costi della salute per la spesa pubblica per il benessere generato nella popolazione coinvolta, sia in termini di sviluppo di nuovi servizi e professioni.
La pandemia ha lasciato un segno, profondo e contraddittorio anche su queste relazioni di confine.
La MuseumWeek 2020, tutta digitale e intitolata alla #togetherness, per rispondere alla durezza del distanziamento e dell’isolamento, ha dedicato la prima giornata ai nuovi eroi: i medici, gli infermieri, il personale sanitario. Intanto, le chiusure imposte dall’emergenza si sono abbattute in tutto il mondo con un impatto devastante su imprese culturali e artisti che vivevano principalmente del proprio pubblico. I licenziamenti in massa del personale, soprattutto degli addetti ai settori educativi dei musei americani, hanno sorpreso e sconcertato.
Quanto ai nostri musei, il congelamento del turismo internazionale renderà molto difficile mantenere nel 2020 i 128 milioni di ingressi registrati nel 2018[10] al termine di una crescita costante nell’ultimo decennio.
Alle difficoltà connesse alla riduzione dei flussi, alle misure precauzionali di distanziamento, il sistema culturale sta rispondendo con un orientamento alla prossimità, ma va considerato che i residenti nel nostro Paese andati almeno una volta all’anno al museo sono appena poco più di tre su dieci. Il salto verso il digitale, soprattutto in Italia, per molte realtà artistiche e culturali è avvenuto in condizioni non mature e comunque non ha permesso di raggiungere i tanti cittadini che si trovano ancora dalla parte deprivata del digital divide, spesso correlato alla povertà educativa ed esperienziale.
Eppure, durante il lockdown pandemico è cresciuta la consapevolezza del ruolo dell’arte per lo sviluppo umano, anche da parte degli addetti ai lavori più “scettici”.
Anche in modo rudimentale e ingenuo, le persone hanno cercato nella cultura sollievo alla paura, al disorientamento, alla distanza dagli altri, al lutto, all’angoscia per il futuro. E molto la cultura potrà fare sull’impatto dei disturbi da stress post-traumatico che sono oggetto di analisi da parte degli specialisti.
Non esiste un dato certo su quante siano in Italia le imprese e le organizzazioni culturali e artistiche che operano in modo sistematico per la salute e il benessere attraverso progetti dedicati.
In altri paesi, come il Regno Unito, la Svezia o la Norvegia, che hanno fatto da battistrada nella costruzione teorica e pratica del welfare culturale, esistono politiche che le orientano, centri di ricerca e coordinamento dedicati che promuovono la raccolta, la validazione, la circolazione delle evidenze. Le Medical Humanities, parte del curriculum formativo dei medici in alcuni paesi, offrono strumenti derivati dalle arti visive e dalla letteratura per rendere più efficace l’interazione, anche narrativa, con i pazienti. Purtroppo, non in Italia.
Dagli anni Ottanta, studi longitudinali, anche in italiano[11], documentano l’effetto protettivo della pratica culturale perfino sull’aspettativa di vita e sullo stato di salute percepita delle persone.
Attività fisica e una vita culturale ricca e regolare sono annoverati fra i fattori più importanti di invecchiamento attivo e creativo.
In un Paese come il nostro, dove più di 13,5 milioni di persone hanno più di 65 anni e dove, non solo due terzi dei carer sono familiari anziani (in maggioranza donne), ma anche dove la riduzione delle dimensioni delle famiglie condanna i vecchi, in quote sempre crescenti, alla solitudine, una strategia di welfare culturale può rappresentare un sollievo importante, un supporto efficace alle forme di assistenza basate soprattutto su trasferimenti economici. Grazie alla presenza capillare di presidi culturali come musei e biblioteche che innervano il Paese, una più diffusa mobilitazione della cultura per il benessere sarebbe anche sostenibile sotto il profilo dei costi.
Ma occorrono competenze, oltre lo slogan e l’episodicità per questa grande riserva di valore intrinseco del settore culturale per contribuire al nuovo welfare di prossimità generativo, come al benessere nelle imprese e nelle organizzazioni, in questo momento storico di profondo ripensamento dei sistemi sociali ed economici.
Perché questo accada, occorre conoscere, superare l’attuale frammentarietà delle esperienze e l’aneddoticità della loro rappresentazione.
Questo richiede una conoscenza accurata e aggiornata delle esperienze in atto, metodi di valutazione e validazione riconosciuti e la creazione di una piattaforma aperta, di alto livello, per la ricerca in collaborazione con la comunità scientifica internazionale. Il dialogo strutturato tra i sistemi, culturali e sociosanitario è essenziale, anche per dare vita a interventi coordinati e condivisi sul piano della formazione degli operatori culturali e sanitari. Il salto di scala delle pratiche culturali per la salute, il ridisegno del sistema di welfare e di coesione richiedono uno studio approfondito sulle risorse e sulla sostenibilità, anche economica, ma numerosi sono gli elementi che dimostrano che l’inazione costerebbe di più, in termini sociali e finanziari.
L’Agenda Europea della Cultura 2030 va in questa direzione e indica come pilastri delle prossime decadi i cross over culturali, ovvero l’interazione sistematica e sistemica con altri ambiti di policy, un tempo debolmente interconnesse, in primis quella tra cultura, benessere e coesione sociale. Lo stesso incontro di Davos del World Economic Forum del gennaio scorso ha posto l’accento sulla economia della cura.
La costruzione di un sistema di welfare culturale è un traguardo ambizioso, ma nello stesso tempo realistico, per il nostro Paese: un’impresa di innovazione sociale multi-attoriale, multilivello e intersettoriale con effetti economici di questa portata non è banale, ma i presupposti ci sono e sono molto solidi.
[1]Do-Think Tank con sede operativa che unisce Nord e Sud attraverso luoghi dell’innovazione sociale a base culturale (a Torino al BAC-Barolo Art for Community e a Favara- Farm Cultural Park), nato da dieci professionisti di ambiti disciplinari diversi (oltre alle autrici del testo, Giuseppe Costa, Luca Dal Pozzolo, Elisa Fulco, Enzo Grossi, Alessandra Rossi Ghiglione e Flaviano Zandonai). La missione è quella di mettere a sistema le migliori competenze per creare un ecosistema di dialogo cross over, dare valore e rafforzare le esperienze in atto che adottano la cultura nei processi di cambiamento, promuovendo la diffusione di pratiche replicabili, sviluppare la ricerca e la formazione di competenze, nutrire le politiche che mettano in atto questa visione. www.culturalwelfare.center
Un Do-Think Tank (espressione che si richiama al Think Tank) è un tipo di struttura associativa e collaborativa, fatta da una cerchia di persone più o meno esperte di un settore, che decidono di lavorare insieme, con uno scopo non solo orientato alla produzione di idee, principi, teorie o opinioni come nel caso dei Think Tank, ma piuttosto (o interamente) dedicato alla produzione di azioni o anche di oggetti, generalmente con principi di apertura, altruismo, solidarietà e sostenibilità.
[2] www.operaestate.it/it/dance-well-2
[3] www.amazon.co.uk/Dancing-Parkinsons-Sara-Houston/dp/1789381207
[5] www.treccani.it/magazine/atlante/cultura/Welfare
[6] Health Evidence Network Synthesis Report 67, What is the evidence in the role of the arts in improving health and well-being? A scoping review, OMS 2019. Traduzione italiana disponibile for free su www.culturalwelfare.center.
[7] Con il termine coping, o fronteggiamento, si indica l’insieme dei meccanismi psicologici adattativi messi in atto da un individuo per fronteggiare problemi emotivi ed interpersonali, allo scopo di gestire, ridurre o tollerare lo stress ed il conflitto.
[8] Indicate dall’OMS nel 1993 come ‘le competenze che portano a comportamenti positivi e di adattamento che rendono capace (enable) l’individuo di far fronte efficacemente alle richieste e alle sfide della vita di tutti i giorni’, sono attitudini e capacità personali trasversali, quali il pensiero creativo, la capacità di lavorare in gruppo, la gestione dello stress, la soluzione dei conflitti. (Le medesime competenze e alcune altre, come la capacità di gestir e il tempo e fare rete, assumono il nome di soft skills nella dimensione lavorativa, distinguendosi dalle cosiddette hard skills, che hanno invece a che vedere con il contenuto specifico e tecnico di una occupazione o una professione.
[9] Sergio Fabrini, Cosa serve all’Italia per contare in Europa. Il Sole 24ore, 21 giugno 2020.
[10] https://www.istat.it/it/archivio/167566
[11] Si vedano per esempio: E.Grossi, A.Ravagnan (2013). Cultura e salute. La partecipazione culturale come strumento per un nuovo welfare. Milano: Springer-Verlag; Grossi, Enzo & Sacco, Pier & Blessi, Giorgio & Cerutti, Renata. (2011). The Impact of Culture on the Individual Subjective Well-Being of the Italian Population: An Exploratory Study. Applied Research in Quality of Life. 6. 387-410. 10.1007/s11482-010-9135-1; Economia della cultura, Anno XXVII, 2017 n. 1, interamente dedicato al tema.