Il 2018, anno europeo del Patrimonio Culturale, è occasione preziosa per riflettere sul valore e sulle potenzialità del patrimonio culturale e ambientale nel contrastare dinamiche di spopolamento e contribuire a processi di sviluppo locale nelle aree montane e, segnatamente, nell’Appennino.
In gran parte delle zone montane la conservazione e il valore di un patrimonio ambientale e culturale poco compromesso rappresenta il lascito di una residualità prolungata, di una marginalità rispetto alle dinamiche di sviluppo economico che non hanno coinvolto larghe parti di zone interne, le cui economie e reti sociali sono andate fragilizzandosi e lacerandosi nel corso del tempo. Il boom economico e la crescita industriale sembravano condannare inesorabilmente i territori non metropolitani o al di fuori dei poli di sviluppo, ancor prima per l’incongruenza del modello di vita in una fase di sviluppo industriale, che non per questioni di sopravvivenza economica. Lo spopolamento, l’inacessibilità, l’esclusione dalle opportunità urbane e da una socialità ricca e dinamica, l’enclave al di fuori di logiche consumistiche, sono tutti fattori che hanno connotato in passato i territori montani confinandoli in una dimensione esistenzialmente minoritaria e residuale.
Da qualche decennio, tuttavia, insieme alla ristrutturazione dell’economia industriale, anche i modelli di vita metropolitani non appaiono più così indiscutibilmente irresistibili e totalizzanti. Altri valori si affacciano alla consapevolezza: dalla qualità ambientale e dei luoghi dell’abitare alla riscoperta della qualità della vita e dell’alimentazione, alla diversa integrazione tra tempi di lavoro e tempi di loisir. L’innovazione e la diffusione delle tecnologie di comunicazione e dei media alimentano speranze soft di lavoro delocalizzato, di ripopolamento di aree ad alta qualità ambientale (proprio perché poco compromesse da dinamiche economiche potenti), portano a ipotizzare processi di ricostruzione di nuovi tessuti sociali e produttivi, reticolari, connessi, caratterizzati da modelli organizzativi innovativi. L’ipotesi di città reticolari dell’Appennino che intreccino nervature invisibili di urbanità e opportunità sociali in reti lunghe, senza cementificare e trasformare brutalmente il territorio, trova qui possibilità di conferma unitamente ad alcuni caratteri che hanno assunto le aeree di montagna, come ad esempio – anche a fronte di una demografia preoccupante – una qualità del capitale umano, misurato sul tasso d’istruzione, superiore alle zone di pianura[2] .
Ha quindi molto senso in un quadro di luci e ombre, di vincoli e di opportunità, domandarsi in qual modo il patrimonio culturale e ambientale possa contribuire a radicare ex novo la ricostruzione di una società locale, dacché non è consentito vagheggiare un ritorno al passato, né ipotizzare processi spontanei di ri-insediamento su larga scala, in assenza di quadri d’intervento articolati sui diversi asset portanti della società.
Ha senso se si evita la trappola del ribaltamento improvviso, da una sottovalutazione storica del patrimonio culturale montano e appenninico a una sopravvalutazione salvifica capace di trainare qualsiasi dinamica di sviluppo. Non sarà la bellezza, da sola, a salvare alcunché, ma potrà contribuire se si comprende il senso nel quotidiano che può assumere e la multidimensionalità del suo valore. Così, a fronte dei delicati e complessi fattori che stanno alla base dei processi di sviluppo locale, i beni culturali non potranno essere, nel loro isolamento, i protagonisti di una rinascita economica e sociale, ma potranno, invece, rappresentare una componente importante nel gioco dell’interazione delle variabili socioeconomiche e culturali. A patto di comprendere che il patrimonio culturale fatto di paesaggi, pievi, borghi storici, infrastrutture agricole, terreni e boschi degli usi civici e della comunanza, non è immediatamente fungibile, monetizzabile, utilizzabile. Come per tutti i patrimoni occorre una messa a valore, un complesso dispositivo all’intorno perché la potenzialità patrimoniale si trasformi in redditività futura. E questo passaggio è possibile solo attraverso una valorizzazione che ne veda l’interazione con il capitale culturale e in special modo con il capitale culturale immateriale dei residenti attuali e dei residenti futuri. E’ il capitale culturale delle nuove generazioni e di coloro che tornano a insediarsi nelle zone interne il reagente indispensabile per far emergere modelli di vita che possano usare il patrimonio culturale e il paesaggio come risorsa attiva per la residenza e per lo sviluppo. Si penserà al turismo: certo, si tratta di una componente importante, ma non sufficiente né autonoma. Un modello di sviluppo e di radicamento di una nuova società locale ha bisogno delle risorse del turismo come economia integrativa e ancillare, integrata armonicamente, non come spinta alla torsione di un intero territorio ad adattarsi al mantice degli affollamenti improvvisi e degli altrettanti subitanei abbandoni stagionali.
Il patrimonio culturale materiale e immateriale può diventare asset cruciale per l’occupazione a partire da una riflessione su come innestare il futuro digitale nella memoria dei luoghi, come declinare al futuro una capacità di vivere in accordo con il genius loci in territori a bassa densità, ma condividendo infrastrutture di connessione – anche digitali – e capacità d’impresa. Reagire a dinamiche demografiche esangui comporta, infatti, individuare nuove opportunità d’occupazione e d’impresa, che fanno dei caratteri idiosincratici del luogo e del suo patrimonio culturale la cifra distintiva e competitiva, fortemente radicata nella qualità dei sistemi di vita, nella qualità del paesaggio, dalle filiere corte alla memoria digitale e al patrimonio culturale. Ma, in qualche modo, quest’atteggiamento richiede anche un’inversione concettuale nei modi in cui vengono pensati i programmi di incentivazione economica.
Il centro dell’attenzione non può essere la dinamica di crescita economica dell’impresa purchessia, come elemento da proteggere e riparare dagli urti fino ad acquisita capacità di deambulazione in proprio. La mira dell’azione deve orientarsi alle necessità del territorio e alle opportunità che il suo patrimonio offre. L’impresa è lo strumento privilegiato di valorizzazione del territorio e della società locale, a patto d’interpretare le traiettorie del luogo: solo così, l’impresa può assumere il ruolo di componente dinamica e tendenzialmente più potente di trasformazione. Tutto ciò vuol dire lavorare sul contesto in cui l’impresa deve crescere, sulla capacità dell’ambiente di sfruttarne le esternalità, sull’utilità sociale dell’operato, sulle dinamiche e sulle traiettorie di sviluppo rispetto alle quali la nuova imprese può divenire strumento di attuazione e di apertura di prospettiva.
Molto di più, quindi, che mettere a disposizione strumenti finanziari e d’incentivo utilizzando logiche standard. La conoscenza del luogo, delle sue economie residuali e potenziali, la visione di un futuro possibile, l’individuazione delle infrastrutture necessarie fisiche e digitali, divengono fattori essenziali da declinarsi con cura in ciascun luogo per individuare i possibili cammini da incentivare, i territori sui quali chiedere alle nuove imprese di impegnarsi, le traiettorie alle quali fornire accompagnamento esperto e dedicato.
L’attenzione al luogo, alle specificità del patrimonio culturale, la logica adhocistica con cui individuare la fattibilità di dinamiche di sviluppo è la chiave più efficace per permettere a una capitale culturale esistente nei luoghi e di ritorno da altri territori, di adottare ed ereditare un patrimonio di grande potenzialità, promuovendone la valorizzazione in un processo necessariamente di lunga durata.
[2] Mauro Marcantoni, Giovanni Vetritto, ( a cura di) Montagne di valore. Una ricerca sul sale alchemico della montagna Italiana, Milano, 2017, Franco Angeli. Ricerca condotta da Trentino s School of Management e Censis.