Per capire il ruolo che il design può assumere nella transizione ecologica, può essere utile partire dalla radiografia del sistema industriale italiano, composto in larga parte da PMI. La letteratura specialistica, che in questi anni ha esaminato in che modo questa tipologia di imprese affronta le sfide ambientali e sociali, ha evidenziato, accanto a una serie di difficoltà e di limiti, anche alcune importanti prerogative di eccellenza.

Da un lato le PMI sono contraddistinte da una strutturale carenza di risorse sia di conoscenza sia economico-finanziarie. Le sfide della decarbonizzazione, le energie rinnovabili, la gestione dei rifiuti, lo sviluppo di nuovi modelli di business circolari richiedono capacità strategica, investimenti specifici e competenze specialistiche non sempre disponibili o attivabili da imprese di queste dimensioni.

Dall’altro, le piccole e medie imprese italiane si caratterizzano per alcuni elementi distintivi, riconducibili alla sostenibilità: spesso manifestano un’attenzione molto elevata al territorio in cui sono inserite e ai portatori di interesse che vi operano; a causa di una strutturale mancanza di materie prime fanno ricorso al riciclo (ad esempio in settori come la produzione di carta, mobili, ghisa, alluminio e acciaio)”. Non a caso l’industria italiana ha un tasso di circolarità̀ (rapporto tra materie seconde da riciclo e totale dei materiali impiegati) pari al 50%.

Nei settori tipici del Made in Italy (fashion, food and furniture), quella che per anni è stata la fonte di un vantaggio competitivo, ovvero una produzione di qualità̀, in grado di coniugare tradizione e innovazione, oggi potrebbe non essere più sufficiente per soddisfare i nuovi bisogni del mercato e le richieste delle nuove generazioni di clienti.

Da qui il bisogno di mettere in campo una progettualità − anche comunicativa e di branding − che valorizzi elementi di eccellenza come una naturale tendenza verso la circolarità e una produzione spesso locale, grazie a filiere corte legate al territorio e alle sue specificità. È questa la base da cui partire per costruire un’offerta più sostenibile e in linea con le attese dei consumatori.

Il designer può essere il driver di questo cambiamento, perché proprio il designer può orientare le scelte dell’azienda. In questo senso, una ulteriore evoluzione della figura del designer di prodotto è quella che si rileva dall’esperienza di Studio Formafantasma di Simone Farresin e Andrea Trimarchi. I due designer, che da anni svolgono progetti di ricerca enciclopedici sui materiali e sul riciclo presentandoli al grande pubblico in una veste comunicativa forte, hanno raccontato più volte di come affianchino ormai alle attività classiche di product designer, quella di design consultant al servizio di aziende interessate a capire come definire una produzione attenta alla sostenibilità.

Se il designer nel tempo si è preoccupato di consegnare prodotti o servizi agli utenti, badando principalmente ai loro desideri, dall’altra parte ha dovuto supportare un sistema produttivo, estrattivo dei materiali, distributivo ma anche di comunicazione che non sempre ci sentiamo di fare nostro”.

Lo Studio Formafantasma mette dunque al servizio delle aziende, prima ancora che la progettualità finalizzata al prodotto, un’expertise di ricerca costruita negli anni e ora cristallizzata nel master in Geo Design diretto alla scuola di Eindhoven. “Geo Design vuol dire dunque comprendere in modo approfondito, scientifico, le dinamiche che danno forma all’esistente. E siccome il design si occupa di dare la forma all’esistente, essere consapevoli di certe dinamiche può produrre progettisti più critici e più consapevoli di quello che facciamo”. Il caso dei Formafantasma e dell’interesse che il loro lavoro di ricerca suscita nelle aziende (grandi marchi e realtà internazionali) è un chiaro indicatore del fatto che il ruolo strategico di un design sistemico è ormai abbastanza chiaro, almeno presso le imprese più contemporanee e illuminate.

Alla disseminazione di questa cultura lavorano in particolare il Politecnico diTorino con Systemic Design in Simple Words e il Politecnico di Milano attraverso il network internazionale LENS – Learning Network for sustainability.  Entrambe lavorano per cambiare il posizionamento del design da add-on estetico per prodotti, servizi e spazi a strumento per guidare le imprese nella transizione ecologica e le imprese del design sembrano averlo capito, soprattutto quelle più grandi.

Non a caso, l’aspetto della sostenibilità ha un peso maggiore nelle imprese più strutturate e dimensionalmente più rilevanti; il 93,4% delle imprese con più di 10 addetti, infatti, ritiene che il tema ambientale nell’attività di progettazione sia “molto importante” (46,2%) e “abbastanza importante” (47,2%) nello sviluppo dei progetti attuali.

Il 55,1% delle imprese di design dichiara di possedere una competenza di “medio” livello sulla sostenibilità e di “alto” livello nel 33,9% dei casi. Specularmente, poco più dell’11% ritiene di avere un livello di competenza “basso” o quasi nullo.

Le realtà che ritengono che il tema della sostenibilità all’interno dei propri progetti sia “molto importante” sono il 30,1% dei casi e quelle che lo ritengono “abbastanza importante” il 43,7%. Nonostante l’attualità del tema, il 23,3% degli intervistati dichiara che la sostenibilità ha un peso modesto nella realizzazione dei propri progetti, mentre per il 2,9% dei soggetti tale “peso” è addirittura nullo.

Considerando i servizi attualmente offerti, il 57,6% degli intervistati si occupa di design per la durabilità, ossia di progettare il prodotto o le sue modalità di utilizzo in modo tale da migliorarne la manutenibilità, la durata fisica e quella emozionale, mentre il 43,4% progetta prodotti che riducono al minimo l’impiego di materia ed energia e la produzione di scarti (design per la riduzione).

Nel 34,0% dei casi, gli intervistati progettano prodotti
per rimuovere qualsiasi barriera che possa ostacolarne il processo di riciclo
(riduzione della quantità dei materiali impiegati, utilizzo di mono-materiali, impiego di materiali facilmente riciclabili e di materiali rigenerati, facilità nella separazione dei materiali).

Il 31,4% offre servizi legati al design per la riparabilità ed il 13,3% al design per il disassemblaggio; nel primo caso, gli intervistati lavorano in maniera tale da permettere la sostituzione di componenti o l’aggiornamento delle sue fun- zioni, nel secondo, puntano a progettare prodotti utilizzando sistemi di connessione riversibili, funzionali alla separazione di tutti le componenti per le diverse tipologie di materiali al fine di favorire il processo di recupero e riciclo.

Il 10,7% si occupa del design strategico per la sostenibilità (funzionale alla creazione di framework, kpi e tool per la sostenibilità ambientale) e, infine, il 5,5% si occupa di design per la rigenerazione (funzionale alla rifabbricazione di prodotti con la stessa o diversa funzione d’uso, o alla progettazione di prodotti modulari per favorire il riutilizzo di parti del prodotto).

 

Fonte: Indagine indipendente di Fondazione Symbola, Deloitte Private, PoliDesign, ADI, autunno 2021