L’Italia conferma la sua vocazione a laboratorio permanente del progetto. 100 e più anni fa, con La Rinascente, nasceva il primo workshop della creatività italiana. Globale, inclusivo, radicato nel territorio e aperto alle contaminazioni. Coraggioso, come il primo Italian Design Day nel mondo. Incontri al buio, materiali sostenibili e industrie non tradizioniali sono le nuove sfide dei progettisti, spesso in coppia.

Nel 2017 La Rinascente compie 100 anni – anzi, 100 dal suo battesimo con il nome commissionato a Gabriele D’Annunzio da Senatore Borletti, che nel 1917 acquista i grandi magazzini dei fratelli Bocconi. La Rinascente di Milano rappresenta, per tante ragioni, una rivoluzione nel panorama del design italiano e internazionale, ancora oggi significativa per leggere e interpretare tendenze, modalità, cambiamenti in atto, luoghi e professioni del progetto in Italia e nel mondo. Una piccola rivoluzione – sì, perché il 2017 è anche il centenario della Grande Rivoluzione russa, curiosa coincidenza – che ha cambiato per sempre la nostra storia, quella di Milano, del design e del Made in Italy. La Rinascente è un grande laboratorio creativo, una vetrina dei migliori prodotti italiani, un’officina di sperimentazione – è tra le prime realtà ad avere un Ufficio Sviluppo interno, a rivolgersi ai migliori professionisti della comunicazione e della grafica per coordinare art direction, sviluppo, produzione e promozione. Talenti nazionali e internazionali sono chiamati a collaborare, e ne decretano il successo, viene costituito un Ufficio Pubblicità, si organizzano mostre di prodotti italiani e stranieri e, nel 1954, da un’idea di Gio Ponti e Alberto Rosselli, viene istituito il Premio Compasso d’Oro, ancora oggi il più autorevole riconoscimento del settore. Nel primo department store in Italia, si educa, si promuove, si vende, si coinvolgono cittadini, curiosi e turisti. Si fa cultura. È un progetto di design totale – in un’epoca in cui la parola design e la figura del designer non esistono ancora – non soltanto per il nuovo modello distributivo – un insieme di marchi e di prodotti sotto un’unica insegna e gestione, la varietà merceologica e le vetrine, illuminate anche di notte. Ma anche per la vocazione a essere fucina creativa, coniugando arte e vita passando attraverso il nucleo fondante della nostra società: la famiglia e, dunque, la casa. Ed è grazie al progetto che il passato si fa presente e futuro[1]. La Rinascente, allora – l’irruzione della modernità nella vita di tutti i giorni – è un buon modello per analizzare le pratiche del progetto e la figura del progettista, come autore e protagonista della cultura del design. Un laboratorio che in qualche modo anticipa il concetto del fare sistema, della piattaforma, del coinvolgimento, che oggi attraversano il mondo del design. Si costruisce insieme, dal macro-progetto alla mini-scala. A partire dal designer che guida il processo, come gli architetti dell’Ufficio Sviluppo della Rinascente. Designer Should Take the Lead: scrive Chiara Alessi[2] citando il capitolo conclusivo del manifesto Beyond the New. A Search for Ideals in Design, scritto dalla designer olandese Hella Jongerius e da Louise Schouwenberg, direttore del programma di master dell’Accademia di Eindhoven. È vero, i designer non esistono più, perché si sono moltiplicati, e perché ogni attore del sistema vuole partecipare al processo creativo, “disegnare” il suo prodotto. Ma per fare sistema occorre una leadership, uno o più autori che guidano i processi, e occorre osservare che, in un Paese spesso tacciato di incapacità di alleanze e inclusioni, il 2 marzo 2017 è stato istituito per la prima volta l’Italian Design Day. Più di 100 ambasciatori del design italiano sono andati per il mondo in 100 città, a promuovere l’Italia e i suoi protagonisti. Un’azione di squadra, coordinata e simultanea, nelle sedi italiane di rappresentanza all’estero, voluta dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, in collaborazione con il Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, la Triennale di Milano, l’Associazione per il Disegno industriale, la Fondazione Compasso d’Oro, il Salone del Mobile di Milano e ICE, più il mondo delle imprese con Confindustria. Al centro, i designer, ma anche i curatori, i giornalisti, gli imprenditori, portatori di un linguaggio specifico ed espressione di talento italiano. Ognuno ha progettato il suo messaggio, ha scritto la sua narrazione, ha reso la sua esperienza emblematica. Insieme hanno contaminato anche territori poco battuti – da Addis Abeba a Zurigo, da Dakar a Wellington, passando per Seoul e Shenzhen. E che il design italiano sia sempre più globale, e si avventuri in terre sconosciute, lo ha dimostrato anche la prima edizione del Salone del Mobile in Cina, a Shanghai, nel novembre 2016. Un progetto costruito in tre anni per avvicinare, senza pregiudizi, la più grande potenza economica del mondo, conoscere il mercato e rispondere alle esigenze di un Paese in forte crescita. 20.750 le presenze registrate, per un debutto sperimentale. E così, mentre si allargano le frontiere, si ridefiniscono anche i confini. Lo ha ricordato la coppia cinese Neri&Hu che ha ricevuto l’Elle Decor International Design Award 2017 come Best Designer of the Year. Lyndon Neri, ricevendo il premio, ha ricordato quanta diffidenza ci fosse in Italia, fino a pochi anni fa, per chiunque avesse passaporto cinese. La Cina ora è vicina.

Nuove sono anche le forme di collaborazione tra progettista e mondo dell’impresa. L’Art direction – la visione e la strategia globale che un direttore creativo può imprimere a un marchio anche consolidato – si sposta dal prodotto all’immagine del brand. L’art director progetta con l’azienda, non per l’azienda. E per questo deve saper far squadra, senza aver paura di coinvolgere altri designer, come Matteo Ragni, che ha avviato una relazione intensa con l’azienda Fantoni di Udine. Per loro ha creato HUB, uno spazio fisico e mentale di condivisione e scambio, workspace nel vero senso della parola, e ha persino “occupato” fisicamente con il suo studio lo showroom milanese di Fantoni. HUB è diventato il pretesto per organizzare incontri al buio[3], informali e conviviali con talenti di ogni ambito creativo: dagli editori visionari agli imprenditori più generosi, dai manager capaci di concretizzare grandi progetti a chef in grado di interpretare e anticipare nuovi codici valoriali.

Sì, con il food design si costruiscono nuove piattaforme di narrazione. Dopo l’abbuffata di Expo2015, i designer cercano altre strade. La piattaforma creativa We R Food, per esempio, ha progettato una modalità per rinnovare la cucina tradizionale italiana. Chiamati all’appello, quattro designer – Vito Nesta, Martinelli Venezia, Elena Salmistraro e Zanellato Bortotto – e uno studio grafico, MiLo, per il concept coordinato della tavola, del menù e delle vetrine del ristorante Rigolo a Milano. Filo conduttore dell’operazione è l’intervento sul menù, sulla presentazione dei piatti e del contesto, soltanto dal punto di vista formale: quattro le proposte alla carta, interpretate come un vero progetto di allestimento. Bello e buono, come vuole il good design.

Il designer, dicevamo, sposta e ridefinisce i confini. E in questa epoca di alleanze, anche fluide, progettare insieme, per ambiti industriali non tradizionali, sembra dare risultati sorprendenti. Dodici designer, coordinati da Giulio Iacchetti, sono stati chiamati a interpretare la versatilità delle macchine Atom, azienda italiana leader mondiale nei sistemi di taglio di materiali flessibili e semirigidi. Per festeggiare il 70° anniversario, il colosso di Vigevano scommette sul design con una mostra in Triennale. I progetti emersi da questo viaggio nel mondo dei sistemi di taglio mettono in evidenza il mezzo attraverso cui sono stati ricavati. La bellezza e funzionalità della macchina, oltre al prodotto. Un progetto di narrative design che mette in relazione sistemi sofisticati, materiali e progettisti.

Le ricerche e le sperimentazioni sui materiali, sempre al centro del progetto, cercano nuove vie sostenibili. Il design si orienta verso il green, non solo per il colore che domina le collezioni 2017. Si parte dalla natura per ottenere trasformazioni alchemiche. Orange Fiber produce in Sicilia tessuti di alta qualità dagli scarti delle bucce di arancia. Nata da due studentesse siciliane, dopo anni di ricerca scientifica, processi innovativi e un brevetto, ha prodotto per Ferragamo la prima collezione omonima. L’azienda è entrata nel portfolio della FTL Venture Inc, il fondo internazionale di venture capital fondato da Miroslava Duma, fashion editor e imprenditrice digitale. Sempre in Italia nasce WineLeather, una pelle ottenuta dagli scarti della produzione di vino. Ecologica, resistente, versatile e di grande qualità, ha vinto il primo premio del Global Change Award 2017, assegnato dal colosso della moda H&M alle innovazioni con una forte potenzialità industriale. Idee rivoluzionarie e sostenibili arrivano anche da designer di lungo corso come Antonio Citterio, che ha sperimentato con Kartell la ricerca su BIODURA™, materiale ricavato da materie prime rinnovabili. Il risultato è Bio Chair, una sedia resistente che, idealmente, a fine vita utile, può essere biodegradata.

E, infine, per sottolineare come la creatività stia cercando nuove strade – in questa epoca liquida e incerta, dove social e critical design riemergono come percorsi di forte contemporaneità – una nota sulle relazioni. Sono sempre più numerose le coppie di designer – amici, coppie anche nella vita, unioni di fatto – dai GamFratesi ai Raw-Edges, da Lanzavecchia+Way, a Studio Sovrappensiero e Studiopepe o Zaven, tutti giovani e visionari – quasi a sottolineare che in due si progetta meglio, ci si tiene compagnia e si percorrono più strade, sperimentando in libertà. Come una volta, nell’Ufficio Sviluppo della Rinascente, incubatore di piccole rivoluzioni.


[1] Vedi Domus n. 1013, maggio 2017, un numero speciale curato da Fulvio Irace, dedicato alla vocazione italiana all’eccellenza.

[2] C. Alessi, Design senza Designer, Laterza, 2016.

[3] “ON THE HUB. Pranzi con menti straordinarie” è il nome del progetto e del sito che lo promuove.