La Green Economy, da quanto uscì il primo Rapporto di Symbola dieci anni fa, ha avuto un’evoluzione significativa sotto diversi punti di vista tra loro interconnessi. Vediamoli, anche per comprendere quanto saranno cruciali i prossimi dieci anni, prima di entrare nel merito delle politiche più recenti.

1 In termini di incidenza sul PIL. Nel 2009 la stima del volume d’affari complessivamente generato a livello globale dalla “Green Economy”, era secondo la Globe Foundation pari a circa 5.200 miliardi di dollari, con Paesi quali gli Stati Uniti, la Cina e il Giappone identificati come quelli con il maggior peso percentuale nel panorama internazionale complessivo. Le ultime stime ne individuano una dimensione più che doppia, confermando
trend di crescita annuali in doppia cifra, soprattutto nelle economie emergenti. In questo ambito se l’energia è stato sinora il comparto trainante, quello che risulta più rilevante in termini prospettici è il trasporto sostenibile. Alla luce del processo di urbanizzazione in corso a livello globale (circa il 70% dei 9 miliardi di abitanti previsti per il 2050 sul Pianeta vivranno in città, molte delle quali vere megalopoli), soluzioni orientate al trasporto green (mezzi collettivi, a basso inquinamento, ad elevata efficienza) saranno indispensabili per garantire la vivibilità urbana.

2 In relazione al ruolo di trasformazione del modello economico tradizionale. Già la definizione dell’UNEP di Green Economy nel 2010, come un modello “capace di migliorare il benessere umano e l’equità sociale, riducendo contestualmente i rischi ambientali e le scarsità ecologiche”, ne fissava l’obiettivo di conciliare diverse dimensioni, nella prospettiva propria dello sviluppo sostenibile. La forte attenzione presente un decennio fa nei confronti dell’uso efficiente delle risorse, si è progressivamente allargata in nome della ricerca di soluzioni innovative che possano consentire di rivedere radicalmente il modo di produrre e consumare. In questa prospettiva la circular economy può essere considerata il nucleo più importante del processo trasformativo di cui la green economy è portatrice.

3 Con riferimento al cambiamento climatico. La COP21 di Parigi ha costituito uno spartiacque rispetto all’impegno internazionale, anche da parte delle imprese. La crisi climatica sta diventando il driver principale per il processo di trasformazione sopra indicato, richiedendo una transizione rapida verso le fonti rinnovabili, nuovi materiali e modi di produrre low carbon, soluzioni innovative nel sequestro e utilizzo del carbonio,
modelli circolari di produzione e consumo. Uno studio commissionato dalla European climate foundation e dal Fondo finlandese per l’innovazione Sitra2, sostiene che con un maggiore ricorso al riciclo e al riuso delle risorse l’industria pesante europea potrebbe ridurre del 56% le emissioni di CO₂ facendole scendere di 300 milioni di tonnellate l’anno. Secondo lo studio se questo approccio fosse adottato a livello globale la riduzione nelle emissioni potrebbe ammontare a 3,6 miliardi di tonnellate all’anno per lo stesso periodo.

4 Rispetto alla penetrazione nel tessuto industriale. Se dieci anni fa la green economy era ancora vista come una nicchia di mercato, oggi pervade moltissimi settori, anche quelli più tradizionali e si è progressivamente estesa alle imprese di minori dimensioni. Il rapporto delle Nazioni Unite del 2017 Better Business, Better World3 ha individuato 60 ambiti di grande opportunità per le imprese capaci di perseguire la green economy in coerenza con l’Agenda 2030. Tra questi vi sono nell’agro-alimentare le soluzioni per l’agricoltura sostenibile e urbana, per una riduzione degli scarti lungo le filiere, il biologico, i servizi ecosistemici forestali; nelle città l’housing sostenibile e sociale, i trasporti elettrici e collettivi, la gestione integrata dei rifiuti; nella gestione delle risorse le soluzioni efficienti, circolari, rinnovabili e carbon-free. In molti Paesi le imprese che sviluppano tecnologie pulite sono prevalentemente PMI: nel Regno Unito e in Finlandia, ad esempio, le PMI rappresentano rispettivamente oltre il 90% e il 70% delle imprese cleantech.

5 In termini di innovazione. Vi è stata una significativa crescita della spesa in ricerca e sviluppo e nei brevetti verdi nell’ultimo decennio, in tutto il mondo e anche in Italia. Nel periodo 2006-2015 la crescita dei brevetti green in Italia (complessivamente 3.500) è cresciuta del 22%, con una dinamica peraltro in controtendenza rispetto ai brevetti in generale nello stesso periodo, giungendo al 10% dei brevetti europei. Gli anni successivi
al 2015 peraltro sono stati quelli in cui la crescita dei brevetti in Italia è stata la più elevata. In termini di brevetti registrati presso l’EPO il trend complessivo è passato dai 160.004 del 2015 ai 175.317 del 2018 (+4,6% rispetto al 2017). L’Italia in generale costituisce solo il 2,5% di questo totale, a dimostrazione di come la presenza sulla quota green sia una forte specificità del nostro Paese. ll settore medicale e gli imballaggi sono gli ambiti in cui si esercita maggiormente la capacità innovativa green di imprese, enti e singoli inventori italiani, mentre complessivamente sono i trasporti il contesto più innovativo. La sfida per il futuro è di connettere sempre di più le tecnologie green con quelle della quarta rivoluzione industriale. Vi sono +in particolare alcuni trend di cambiamento di Industria 4.0 che sono particolarmente integrate con la green economy:
a) la “servitisation” – utilizzo dei prodotti come e quando necessario, piuttosto che possederli direttamente – si sta diffondendo in diversi settori
(ad esempio leasing di automobili, noleggio di strumenti, piattaforme di condivisione);
b) la modifica delle modalità di produzione dei prodotti, con forme evolute di decentramento produttivo, facilitata da nuove tecnologie come la stampa 3D o da piattaforme digitali che facilitano il riutilizzo, il riciclaggio e la rigenerazione, in un’ottica di economia circolare;
c) la modifica degli input chiave nei processi industriali, con materiali innovativi – che usano le nanotecnologie o le biotecnologie – capaci di generare prodotti industriali più durevoli, riducendo gli sprechi e migliorando la sostenibilità e la produttività.

6 Nella prospettiva del coinvolgimento degli attori finanziari. Negli ultimissimi anni uno dei protagonisti attesi per la piena valorizzazione delle opportunità della green economy, la finanza, si è finalmente attivato attraverso diverse modalità di azione. Gli investimenti socialmente responsabili sono oggi circa un quarto degli investimenti complessivi, per un ammontare pari a 30,1 mila miliardi (Global Sustainable Investment Alliance, 2018), con una crescita del 34% negli ultimi due anni. Se l’asse portante degli investimenti sostenibili è rappresentato dagli investitori istituzionali (con il 40% di quelli europei che ha integrato i fattori ESG (environmental, social, governance) tra i criteri della propria strategia di portafoglio), si deve evidenziare come sia in atto un trend positivo a favore del settore retail che sta uscendo da una logica di nicchia: dal 2014 al 2017, infatti, secondo uno studio di Eurosif5, la quota di mercato del settore retail è passata a livello europeo dal 3,4% al 30%. In termini prospettici il crescente interesse degli investitori privati per la finanza sostenibile inoltre potrebbe essere ulteriormente supportato dall’attenzione dimostrata dai Millennials: il 93% dei quali considera l’impatto positivo su ambiente e società determinante quando effettua le sue scelte di investimento. Blackrock, la più grande società di investimento del mondo, ha previsto che entro il 2028 gli asset europei investiti in Etf (exchange-traded fund) ESG, fondi passivi di investimento dedicati alla pratica ESG, cresceranno di 20 volte rispetto al valore attuale, calcolato a 12 miliardi di dollari, per arrivare a quota 250 miliardi di dollari (Etica news 2019). Secondo le stime di Blackrock a livello globale verranno gestiti 400 miliardi di dollari legati agli Etf ESG e, in questo scenario quindi l’Europa andrà ad occupare il 60% di questo mercato. All’interno della finanza sostenibile il mercato dei Green Bond ha raggiunto 250 miliardi di $ di emissioni nel 2018 (nel 2009 ammontavano a meno di 1 miliardo), con obbligazioni green corporate che rappresentano quasi un terzo di questo totale. Le obbligazioni verdi corporate emesse al 6 novembre 2018 hanno un potenziale di risparmio di circa 950 milioni di tonnellate di CO₂ e, secondo Trucost (società che effettua stime, anche per l’Onu, sui costi nascosti dell’uso insostenibile delle risorse naturali da parte delle aziende, oggi di proprietà di S&P). La maggior parte dei risparmi di GHG da green bond corporate emesse nel 2017 proveniva però dal finanziamento di progetti di energia rinnovabile (84%), a dimostrazione di quanto spazio vi sia di ulteriore crescita di questi strumenti.

7 Relativamente alle ricadute occupazionali. Gli effetti sull’occupazione, come il rapporto Greenitaly ha dimostrato in questi anni, si sono accresciuti nel tempo sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo. Questo trend è confermato a livello internazionale, anche in termini prospettici. L’ILO6 ha previsto la creazione netta di 18 milioni di posti di lavoro green al 2030, come risultato di circa 24 milioni di posti di lavoro creati e di circa 6 milioni persi. Dei 163 settori economici analizzati, solo 14 mostrano perdite di occupazione di oltre 10.000 posti di lavoro in tutto il mondo. Solo due settori (raffinazione del petrolio ed estrazione di greggio) mostrano perdite di più di un milione di posti di lavoro, a dimostrazione di come un ambito chiave di trasformazione dell’economia e del mercato del lavoro riguardi il settore energetico. Un’altra importante caratteristica della transizione è la penetrazione dell’economia circolare. Nell’ambito dello scenario economico circolare, l’occupazione mondiale crescerebbe di circa 6 milioni di posti di lavoro, valorizzando attività come il riuso, la riparazione, il riciclo dei beni. Vi sono però anche alcune sfide cruciali, che riguardano in misura significativa i Paesi in via di sviluppo: ad esempio 1,2 miliardi di lavoratori dipendono dai servizi ecosistemici, anche in connessione con la crisi climatica e quindi quanto saràpossibile fare in questo ambito avrà una ricaduta molto importante sull’occupazione. Più in generale a livello globale le Nazioni Unite hanno previsto che il perseguimento degli obiettivi dell’Agenda 2030 porterà, grazie alle opportunità evidenziate dal già citato rapporto Better Business, Better World, alla creazione di 380 milioni di posti di lavoro, più del 10% dell’occupazione attuale.

8 In termini di impatto sociale. La green economy si colloca all’interno di un modello di sviluppo che si pone in modo radicalmente diverso rispetto a quello precedente. È proiettato verso una sostenibilità di lungo periodo, cercando di interiorizzare i costi “esterni” e misurando il proprio successo non solo in termini economici, ma anche sulla base dei progressi globali di natura sociale e ambientale, compresa la riduzione della povertà, l’uso
sostenibile delle risorse naturali, la creazione di posti di lavoro dignitosi. In altri termini ha un obiettivo complesso, consentirci di superare congiuntamente una triplice crisi: quella economica, quella ambientale, ma anche quella sociale. In questi dieci anni infatti la stagnazione del reddito per la maggior parte della popolazione è risultata in netto contrasto con la ricchezza in aumento delle élite, creando condizioni sfidanti per i governi democratici, messi in discussione dal populismo. Al tempo stesso nei Paesi in via di sviluppo vi è ancora circa un miliardo di persone che vive con meno di 1,25 dollari al giorno. In questo decennio, come Symbola e Unioncamere hanno potuto documentare, la green economy ha dimostrato la sua caratteristica di garantire uno sviluppo a maggior contenuto di lavoro, connesso ai territori e alle filiere locali, svolgendo una funzione
coesiva importante. D’altronde non si può non riconoscere la persistenza di rilevanti criticità, per cui il forte legame della green economy con i temi sociali, a partire dal rispetto dei diritti umani e della riduzione delle disuguaglianze, deve essere quindi ulteriormente valorizzato, rafforzandone le ricadute in termini di equità rispetto al modello tradizionale.

9 Con riferimento alla tutela e valorizzazione capitale naturale. Oggi vi è una crescente consapevolezza che il capitale naturale e i servizi che gli ecosistemi mettono a disposizione dell’uomo sono cruciali per il benessere delle comunità e per lo sviluppo dell’economia. Il capitale naturale, ovvero lo stock limitato delle risorse naturali della Terra da cui le imprese e la società dipendono per prosperità e benessere, sta diminuendo a un ritmo allarmante e insostenibile. Conseguentemente è aumentato negli ultimi anni il costo degli impatti sul capitale naturale – il valore in dollari delle risorse estratte e dell’inquinamento emesso. Questo aumento è in parte significativa determinato dalla crescita della produzione nelle filiere agricole e dai correlati maggiori impatti ambientali, in particolare il consumo di acqua e l’inquinamento idrico dovuto a fertilizzanti e pesticidi. Se le aziende dovessero internalizzare tutti i costi del capitale naturale associati alle loro attività, ad esempio a seguito di nuove imposte sul carbonio, i loro profitti sarebbero notevolmente a rischio. Secondo il rapporto annuale di Greenbiz il costo del capitale naturale attribuibile alle 1.200 più grandi imprese al mondo ha superato nel 2018 i 4.100 miliardi di dollari, più del doppio del loro reddito netto. Per la maggior parte dei settori considerati, gran parte di questo costo è incorporato nelle catene di approvvigionamento (mediamente il 78%).