Realizzato in collaborazione con Cristina Loglio, esperta politiche europee per la cultura.
Questo contributo fa parte della rubrica #iosonocultura,  parte del Decimo rapporto IO SONO CULTURA realizzato da Fondazione Symbola, Unioncamere e Regione Marche in collaborazione con l’Istituto per il Credito Sportivo.

 

Palazzo del Collegio Romano

 

Tra i numerosi effetti della tempesta Covid, va annoverato anche il temporaneo accantonamento del Disegno di Legge governativo riguardante le filiere del turismo e della cultura, calendarizzato per la fine di febbraio 2020, che include tra le sue finalità nuove e solide basi legislative per le imprese culturali e creative. Collegato alla legge di bilancio 2020, la bozza del DDL prevede, tra l’altro, che ogni tre anni il MiBACT, insieme con il Ministro per lo sviluppo economico[1], emani un piano strategico per le imprese culturali e creative.

Si recupera così, attualizzandolo e integrandolo, il lavoro condotto intorno alla proposta di legge Ascani Disciplina e promozione delle imprese culturali e creative, che nel settembre 2017 era stata approvata in prima lettura dalla Camera e aveva trovato uno spazio, pur se marginale, in un comma inserito nella Legge di bilancio 2018, con l’introduzione della definizione di Impresa culturale e creativa e l’istituzione di un fondo per il tax credit. I settori accolsero con grande attenzione e favore quel passaggio, costantemente sollecitato e monitorato dal consorzio riunito in ArtLab, purtroppo senza esito, perché il governo gialloverde non diede seguito con decreti attuativi.

L’attesa è supportata da numeri significativi: nelle valutazioni della Commissione bilancio, i settori culturali e creativi valgono in Italia il 6,1% del PIL, hanno un valore aggiunto di 95,8 miliardi di euro l’anno e generano 1,5 milioni di occupati[2].

Numeri ingenti, analoghi alle medie europee, nonostante il confronto a livello europeo non sia supportato da una condivisione dei parametri di classificazione del perimetro dei settori economici presi in considerazione, in riferimento ai settori culturali e creativi.

Di fatto, i settori culturali e creativi italiani hanno affrontato la stagione Covid senza alcune precondizioni che ne avrebbero attutito i danni.

Da parte sua, il MIBACT si è trovato a dover disporre misure emergenziali in un contesto frammentato e in parte sommerso. I decreti di spesa si susseguono a ritmo quasi giornaliero: la cassa integrazione in deroga viene prolungata così come il voucher agli autonomi, la copertura parziale degli affitti e via dicendo, con una serie di azioni puntuali, messe a punto e negoziate con le diverse categorie. Il Ministro Franceschini merita davvero un ringraziamento per l’azione proattiva e forte, ma per il futuro è necessario poter contare su basi diverse.

 

Ministro Franceschini, © MIBACT

 

L’emergenza sanitaria causata dal Covid ha messo in evidenza molte fragilità, rese più acute dalla lunga chiusura e dalla sospensione di ogni forma di socialità.

Incassi ridottissimi o azzerati, molti contenuti veicolati online gratuitamente, costi e responsabilità di sanificazione sulle spalle degli operatori, ripresa delle attività con protocolli per garantire il distanziamento sociale ma antieconomici, blocco della filiera produttiva, blocco totale della dimensione internazionale della creazione e della circuitazione. In seguito a tutto questo sono emerse creatività ed energie generose, ma spesso è sembrato di fare un passo indietro di decenni. Molta l’ansia di sopravvivenza e la disperata domanda di sostegno da parte della mano pubblica che, sollecitata dal grido di dolore, sta adoperandosi con slancio per rispondere all’appello. La crisi ha messo in difficoltà tutti i soggetti operanti nei settori culturali e creativi, con criticità diversificate, accentuate (e talvolta assolute) nel settore privato, tra gli intermittenti, i lavoratori autonomi, le strutture erogatrici di servizi culturali a musei, scuole e biblioteche.

La ricerca condotta dall’Osservatorio del Piemonte, diretto da Luca Dal Pozzolo, con metodo poi adottato da altre Regioni e Comuni, sta mettendo in evidenza, mese dopo mese, non solo i mancati introiti del settore a causa dell’emergenza Covid, ma anche le tipologie di lavoratori e di servizi che rimangono ai margini, aiutando a identificarli e contarli.

Nello sforzo di darsi un quadro esauriente, nel mese di giugno la Commissione Cultura del Senato ha attivato delle audizioni con i rappresentanti di settore: il numero e la frammentarietà dei contributi è stato segno di incapacità degli operatori, in questa fase di emergenza, di guardare oltre l’immediato e di mettere a fattore comune la forza che il sistema delle industrie culturali e creative potrebbe esprimere insieme, a servizio del Paese e per il suo stesso ruolo futuro.

 

© MIBACT

 

Il confronto parlamentare sul DDL Franceschini, per la parte riguardante i settori culturali e creativi, consentirà di affinarne i contenuti, in buona parte espressione del percorso conseguente alla proposta Ascani. Tra essi al primo posto c’è la definizione di Impresa culturale e creativa e la conseguente definizione del perimetro della filiera, che non può discostarsi da quello del Libro verde europeo e che, nella prevalenza dell’una o l’altra accezione (culturale/creativa) dovrà far discendere diversa gradualità di intervento. Oltre al perimetro, è fondamentale garantire una raccolta dati sistematica sul settore e il sostegno a forme di rappresentanza unitaria o federata. È di importanza basilare assicurare una chiara e pacifica convivenza tra soggetti pubblici e privati, cui riconoscere diritti e doveri, nella condivisa finalità di un interesse pubblico qual è il diritto dei cittadini e delle comunità alla cultura. Dovrebbe essere incoraggiata la concessione di spazi demaniali da riqualificare e valorizzare a canoni agevolatissimi. In parallelo, è necessario aggiornare un albo delle imprese culturali e creative (con eventuale modifica dei corrispettivi codici ATECO), come base per una aggiornata emanazione delle misure autorizzative, fiscali, del lavoro, etc.. Non da ultimo, sempre nel campo definitorio, è opportuno che si definiscano le professionalità culturali e creative e i connessi percorsi formativi (formali e non), includendo anche la tipologia delle professioni cultural/sociali di cura, assistenza e inclusione. Dal lato dell’occupazione, si sottolinea anche la necessità di favorire strumenti per l’emersione del lavoro sommerso, oltre all’introduzione di misure di sostegno agli intermittenti e a garanzia della parità di genere. Per quanto riguarda il campo della formazione, è bene che essa abbia una piena dimensione europea, includendo competenze di carattere economico e manageriale, favorendo strumenti di sostegno alla mobilità. Infine, per il pieno sviluppo del potenziale della filiera delle industrie culturali e creative, da un lato, si deve puntare sulla creazione di ponti stabili tra settori culturali e creativi, turismo, ricerca e mondo digitale; dall’altro, sostenibilità e resilienza, tipici dei settori culturali e creativi, vanno considerati come elementi chiave di ridisegno sociale, sia nelle aree urbane dismesse che in quelle interne.

I settori culturali e creativi hanno bisogno di un contesto che li allontani dalla marginalità, uno status talvolta oggettivo ma non sostenibile nel nostro tempo.

Al contrario, la forza rigenerativa e positiva della filiera va rivendicata insieme all’assunzione di responsabilità, prima di tutto culturali ed educative, ma anche sociali ed economiche che ne derivano. Si tratta di fare tesoro di una nuova consapevolezza che in Italia potrebbe essere ben consolidata da nuove regole del gioco.

 

© MIBACT, www.fumettineimusei.it

 

Quando la crisi innescata dal fallimento della Lehman Brothers ha messo in discussione l’economia mondiale, l’Unione europea si è interrogata su quali fossero i punti di forza economici del nostro continente: peculiari, connotativi, attrattivi, non delocalizzabili, trainanti le esportazioni. E insieme intelligenti, sostenibili e inclusivi, per rispondere al modello di crescita economica e sociale che la UE intendeva perseguire. È stato allora, nel 2011, con la pubblicazione del Libro verde Unlocking the potential of the cultural and creative industries che è iniziata la lunga marcia della legittimazione e valorizzazione dei nostri settori in seno alle priorità economiche europee, con successivi passaggi chiave a cui il Parlamento europeo ha fatto da apripista e che la Commissione europea ha adottato con convinzione. Il processo, non ancora completato e non privo di ambiguità, è indicativo delle differenze esistenti tra gli Stati membri (in particolare nel diverso peso attribuito alla componente connessa al patrimonio – perlopiù gestito dal settore pubblico – e quella connessa al mondo delle imprese), anche in relazione alla diversa attitudine alla relazione tra pubblico e privato.

Avviene così che in Italia, Paese connotato da un ricchissimo patrimonio culturale fortemente attrattivo, da competenza professionali di settore molto pregiate e da una visione alta e costituzionalmente sancita del ruolo della cultura e del paesaggio per la crescita della persona e delle comunità, vadano ancora consolidate le condizioni soggettive e oggettive in grado di liberare le potenzialità (Unlocking the potential) dei settori culturali e creativi, al servizio del Paese in senso economico e occupazionale, ma anche di coesione sociale, dialogo interculturale e di relazioni internazionali.

Tra gli aspetti più problematici in Italia, c’è la resistenza dei vari comparti a favorire un rapporto sinergico tra pubblico e privato, faticoso in tutti i campi.

Molti i possibili motivi all’origine di quest’attitudine diffusa, tra cui, forse, il retaggio del periodo della cortina di ferro, in cui si contrapponeva la figura dello Stato imprenditore a quella del mondo privato, sinonimo di interesse particolare, da tenere a freno.

Il progressivo avvicinamento agli standard europei di ispirazione anglo-americana, ispirati all’etica del capitalismo, hanno comportato per l’Italia una fatica non piccola nell’adeguamento ad un requisito chiave: la partnership tra pubblico e privato. Del resto, la crescita del debito pubblico e i vincoli di bilancio hanno fatto sì che, per garantire gli investimenti necessari ad ogni politica diversa dalla mera sopravvivenza, l’Italia debba far ricorso proprio ai fondi europei, a volte in regime di cofinanziamento. Non potendo prescindere da alcune regole: prestito agevolato in sostituzione dei contributi a fondo perduto, corresponsabilità nel budget, milestones, esplicitazione dei risultati attesi nei tempi e nei segmenti di spesa previsti, sostenibilità nel lungo periodo, cultura della valutazione. Inoltre, i fondi sono finalizzati ad affrontare nodi che la stessa UE indica, ai quali adeguare la propria attività.

In generale, questo approccio contrasta con alcune caratteristiche del sistema produttivo non solo italiano, come la forte antipatia per il ricorso al credito, la centralità non cooperativa del saper fare individuale e la scarsa formazione economica. Non a caso, l’Italia stenta a impegnare i fondi a cui avrebbe accesso e, quando lo fa, a spenderli in tempo.

Il DDL si inserirà in questa fase di disponibilità di fondi europei post Covid, rivolti a settori toccati dalla pandemia, tra i quali sono ricompresi quelli culturali e creativi.

L’effetto atteso dalla piena implementazione del Piano strategico per le ICC previsto nel Disegno di legge è la crescita dei settori culturali e creativi perché, insieme al turismo, esprimano tutto il loro potenziale nel far crescere la ricchezza e la felicità del Paese. Il tutto consentendo la valorizzazione della sua storia e delle sue specificità territoriali, sapendole coniugare con la cultura dell’accoglienza e la spinta all’innovazione, nel segno della bellezza e della pace.

 


[1] Previa intesa con la Conferenza unificata e previo parere delle Commissioni parlamentari competenti.

[2] Fonte: Io sono Cultura 2019, realizzato da Fondazione Symbola e Unioncamere.