In Toscana il “green” è in ritardo L’economia toscana è sempre più green: le storie delle aziende sostenibili. Ma il professor Frey denuncia «la lentezza della transizione». Pochi progetti per le piccole imprese Frey: «Si recuperi il gap degli impianti» a parola economia circolare non è così nuova come sembra. Il dato che racconta come «niente si butta e tutto si riusa» o «si rimette in circolo» è quello che riguarda gli occupati che svolgono un professione green: in Italia nel 2020 sono il 13,7% del totale e sono cresciuti, secondo un’analisi della Fondazione Symbola, del 6,8%. Numeri che ci dicono anche quanto la Toscana investa sul cambiamento economico e culturale. Non molto ma neanche troppo poco: la nostra regione occupa nel settore green il 13,4% degli occupati mentre la Lombardia, prima in classifica, ha già raggiunto il 16, 1%. Peccato, perché la Toscana «sarebbe da contesto territoriale di punta». Lo dice Marco Frey, uno dei maggiori esperti di economia circolare del Paese. Professore di management alla scuola superiore Sant’Anna di Pisa è il direttore scientifico di Symbola, autorità nel campo degli studi su green economy, cultura e coesione sociale. Tre indicatori, che per dirla con le parole della fondazione, «danno vita a un modello di economia di qualità» . E mai come oggi la crescita sostenibile è stata tanto importante e tanto strettamente legata allo sviluppo di un territorio. Professore, cosa stiamo facendo in Toscana per aumentare i processi virtuosi legati all’economia circolare? «Sicuramente c’è una maggiore attenzione ai prodotti rispetto ai processi. Nel senso che si presta particolare attenzione a ciò che si immette sul mercato puntando sul fatto che abbia circolarità. È cresciuta la consapevolezza. Cosa intendo dire? Sia i consumatori sia le imprese mettono tra i requisiti di quello che vendono concetti come usura e impronta ecologica. Due concetti su cui la Commissione europea sta molto spingendo. Contemporaneamente sta crescendo l’interesse verso l’etichettatura dei prodotti: sia quelli che indicano le caratteristiche di riciclabilità, che sono a matrice biodegradabile, bio o qualcos’altro». Un interesse generico sul tema dell’economia circolare o legato a particolari settori? «Ci sono alcuni settori chiave che stanno emergendo a livello toscano. In particolare quello del food con attenzione allo spreco e alla tipologia di produzione anche perché la grande distribuzione sta valorizzando quei prodotti con caratteristiche di circolarità in particolare per i private label, i marchi venduti con l’etichetta del distributore». Qual è invece la parte più debole della nostra regione? «Gli impianti per il trattamento dei rifiuti sono tra i temi chiave su cui non si è ancora fatto abbastanza anche se, forse, ora qualcosa si sta smuovendo. Ne servono di più per far sì che i rifiuti diventino risorse. La Toscana ne è troppo sottodotata. Qualcosa è stato fatto relativamente agli impianti che trasformano la Forsu, il materiale raccolto dalla raccolta differenziata dell’organico, in biogas: ci sono le autorizzazioni per alcuni impianti e proposte abbastanza rilevanti fatte negli ultimi mesi ma c’è bisogno di dotarsi di una capacità impiantistica adeguata per garantire una maggior autosufficienza della regione». Servirebbero dei termovalorizzatori? «Dei biogassificatori che sono un’evoluzione dei termovalorizzatori: generano materiali o comunque gas e quant’altro sia riutilizzabile. Più che bruciare, hanno una capacità di trasformazione chimica dei rifiuti stessi. Servirebbe una capacità di tutti gli attori per spingere adeguatamente: la Regione Toscana ci crede ma fa un po’ fatica a mettere in pista le azioni giuste per sostenere le normative dei progetti di circolarità. C’è da trovare le chiavi giuste per sbloccare il tema dei sottoprodotti dei settori industriali». Siamo così indietro rispetto alle altre regioni? «No, ma non siamo sempre nella fascia medio alta come invece dovremmo essere. Con lo sfruttamento della circolarità nelle filiere dovremmo andare in questa direzione». Su questo stiamo investendo? «Le imprese sono sempre più consapevoli dei vantaggi economici oltre che reputazionali che si possono ottenere e che arrivano prevalentemente dalla parte operativa. Faccio un esempio: una conceria piccola, 30 dipendenti, ha messo insieme tre azioni diverse (il progetto per il recupero del sale, il pelo da destinare ai fertilizzanti e il riciclo e recupero dell’acqua calda e quindi il risparmio energetico): ha voluto capire bene quali fossero i benefici economici ed è emerso che sono rilevanti. Purtroppo però tutta l’operazione del Pnrr non è ancora arrivata nelle piccole imprese». Da cosa dipende? Dalle imprese? «No, i progetti per il piano si vedono solo come strategia pubblica e sui progetti con grandi bandi. Si è ancora in attesa di capire quando il piano complessivo arriverà a coinvolgere, a cascata, il tessuto produttivo in modo più esteso. C’è ancora poco da questo punto di vista: siamo fermi per ora a livello nazionale» .