Carbon tax alla frontiera. La misura Ue attira accuse di protezionismo e unilateralismo, rischia ritorsioni. Le imprese europee denunciano costi elevati, applicazione complessa e scarsi benefici per il clima
Acciaio e alluminio prima di tutto, materie prime chiave per cui l’Europa è molto dipendente dall’estero, ma anche cemento, fertilizzanti, elettricità.
Su queste importazioni a partire dal 2023 dovremo pagare anche le emissioni di CO2. Chiamarli dazi ambientali è scorretto, insiste Bruxelles, mala misura presentata dalla Commissione Ue nell’ambito del pacchetto «Fit for 55» – il Carbon Border Adjustment Mechanism (Cbam), secondo la denominazione tecnica – potrebbe comunque avere un impatto paragonabile a quello di una guerra commerciale.
La carbon tax alla frontiera è ancora soggetta a modifiche prima dell’entrata in vigore. Ma fin d’ora sembra destinata a ridisegnare la mappa degli scambi (e forse delle relazioni politiche) internazionali, esponendoci anche al rischio di ritorsioni: magari diverse, ma non meno temibili dei ricorsi al Wto che Bruxelles ha cercato di prevenire associando al varo un graduale ritiro delle allocazioni gratuite di diritti
per la CO2.
La reazione più dura è arrivata dall’Australia, il cui ministro del Commercio Dan Tehan ha parlato di «nuova forma di protezionismo che danneggerà il libero commercio globale». Ma anche gli Stati Uniti hanno storto il naso, pur con toni più sfumati rispetto all’epoca di Donald Trump: il segretario al Tesoro Janet Yellen nei giorni scorsi ha criticato l’unilateralismo della Ue, affermando che certe misure si dovrebbero concertare «in modo interattivo», senza discriminare i Paesi che per decarbonizzare scelgono strade diverse da quella europea.