«Le scarpe di Laboutin sono francesi? – si chiede Sergio Dompè, patron dell’omonima farmaceutica – Certo. Ma nella suola c’è scritto Made in Italy». Trasversale e – ai più – invisibile, il “conto terzi” (o Cdmo, acronimo inglese di Contract Development and Manufacturing Organization) non è un comparto ma un modello di business del made in Italy. Più di un’impresa italiana su 4 lavora anche conto terzi. Un farmaco su 4, in Europa, è italiano ed è frutto di una filiera di fornitura. Presentato ieri a Milano – nella sede di Assolombarda – da Farmindustria e Fondazione Symbola il primo studio sul totale del conto terzi italiano.

Chi sono i «terzisti»

Nel nostro Paese sono 1o8mila le imprese della manifattura (il 27% del totale) che hanno prodotto almeno una volta conto terzi, per un fatturato relativo a questi prodotti pari a 56 miliardi di euro. La quota di fatturato conto terzi sul totale varia, però, da settore a settore: dal 13,3% dell’abbigliamento al 9,6% dell’automazione al 6,4 della farmaceutica al 6% dell’arredamento fino all’1,3 % dell’alimentare. Diverso, invece, il “peso” delle specifiche filiere sul totale del fatturato italiano conto terzi. Predomina l’automazione (43,5% del totale), seguita da abbigliamento (8,2%), arredamento (5,4%), alimentare (3%) e farmaceutica (2,9%) (quote minori riguardano gomma-plastica, elettronica, prodotti petroliferi). E mentre nel resto del manifatturiero predominano piccole e medie imprese (sotto i 5o addetti) nella farmaceutica la maggioranza dei “terzisti” sono le imprese con oltre 25o addetti.