Parla il sociologo Aldo Bonomi: “In poche settimane è cambiato tutto, bisogna fare un patto tra imprenditori e sindacato per adeguare il sistema produttivo, ma va coinvolta la società”.
“Dobbiamo metterci in testa che stiamo vivendo un salto d’epoca. Le vecchie richieste corporative non funzionano più, perché attorno a noi tutto è già cambiato”, dice il sociologo Aldo Bonomi, 70 anni, mentre la Confindustria del Nord reclama a gran voce la riapertura delle fabbriche. Alla questione settentrionale ha dedicato libri come Capitalismo molecolare (1997) e Il rancore (2008).
Bonomi, dove si trova adesso?
“Sono nel mio paesino, Tresivio, in Valtellina, duemila abitanti e tre contagiati. A volte mi sento in colpa rispetto a chi sta a Milano, perché quando la mattina vado a fare la spesa nel negozio di vicinato non devo fare la coda come al supermercato. E se mi affaccio dalla mia finestra vedo un prato verde e il bosco”.
La richiesta di Confindustria non tiene conto del salto d’epoca?
“Sì, perché non contempla i corpi messi in pericolo dal virus. E senza i corpi non c’è impresa. E quindi prima bisogna metterli in sicurezza, sanificando, garantendo il necessario distanziamento sociale, perché senza salute non c’è vera ripartenza. Allo stesso tempo occorre fare un ragionamento alto, perché siamo già precipitati in un modello di sviluppo nuovo. E’ già mutata non solo l’economia, ma anche la geopolitica”.
Ma un imprenditore che vede andare in fumo la sua azienda adesso potrebbe trovare troppo intellettualistica la sua risposta.
“Invece dobbiamo capire che non si può pensare di riaprire la fabbrica e ripartire come se nulla fosse successo. Serve una visione. Invece ci si domanda soltanto: quando si riparte?”
Siamo di fronte a un dilemma morale: o l’economia o la salute. Qual è la possibile sintesi?
“Si torni ai tempi della grande discussione sulla medicina democratica. Nel 1976 ci fu la tragedia di Seveso. In confronto alla tragedia del Covid fu piccola cosa, riferita a una piccola porzione di territorio, ma indusse molti imprenditori a cambiare il loro modello di produzione”.
C’è questa consapevolezza tra gli imprenditori?
“Una parte del padronato lo aveva già capito da tempo, penso a quelli che avevano firmato il manifesto della Fondazione Symbola, presentato ad Assisi a inizio anno. E ora proprio loro devono farsi sentire. Poi rimane un corpaccione la cui logica rimane quella del produrre per competere, e che preme solo per ripartire. E non dimentichiamoci dei tanti del commercio e delle piccole imprese artigiane che dovremo aiutare per ricominciare”.
Lei pensa che il capitalismo non sarà più lo stesso?
“I modelli produttivi no di certo. Ma nemmeno l’Europa sarà più la stessa. Perciò è illusorio pensare di farcela con un ripiegamento corporativo”.
Il Paese reggerà questa prova?
“Sì, se saprà capace di coinvolgere la società in questo processo. La politica e l’economia da soli non ce la faranno”.
Cosa intende esattamente per società?
“Sindacati, insegnanti, forze sociali, eccetera. Se tengono loro tiene anche il Paese. Rischiamo una società lacerata, divisa. L’antidoto è coinvolgerla per costruire insieme il mondo che verrà”.
Che deve fare il sindacato?
“Penso a un sindacato duale, in alto in grado di negoziare innovazione e cambiamento, e in basso di fare sindacato di comunità nella composizione sociale in cambiamento. Il Nord è luogo dove sperimentare tutto questo. Dalla pedemontana veneta a quella lombarda, fino alla via Emilia, è tutta una grande fabbrica a cielo aperto. Riaprire indiscriminatamente significa riflettere sull’inevitabile concentrazione di persone e mezzi. Parliamo di un paesaggio urbano punteggiato dalla villetta con accanto il capannone. Questo paesaggio va ripensato, e da dove iniziare se non tra Torino a Trieste?”
Insomma, lei dice: il mondo è già cambiato, dobbiamo aggiornarci, ma serve un grande patto collettivo. E’ così?
“Sì. Mi ha colpito il Papa citare Enea nell’intervista che ha dato a Civiltà cattolica. Oggi le parti sociali sono Enea: ci salviamo se si caricano sulle spalle anche Anchise, ovvero il vecchio modello di sviluppo, per riformarlo insieme. E’ la rottura della logica della disintermediazione. Ora prevale quella della comunità: non c’è economia senza società”.
Molti stanno cercando di difendersi con lo smart working. Ma non tutti possono. Che fare?
“Infatti il tema è come recuperare anche i tanti analogici? O quelli che io chiamo i lavoratori dell’ultimo miglio, come i rider che consegnano i pacchi di Amazon? O i tantissimi autonomi, senza rappresentanza, che Sergio Bologna ha chiamato del lavoro apolide. Parliamone”.
Cosa è successo nella sua Lombardia?
“Mi pare che abbiamo trattato le aziende sanitarie come imprese. E i risultati purtroppo li abbiamo visti. Il Veneto, dove avevano mantenuto i presidi sanitari locali, pare invece abbia retto meglio”.
Una sanità di grandi ospedali e in parte privata?
“Non sono un esperto, ma questo è il punto vero su cui dovremo incentrare la discussione su quanto accaduto, se vogliamo dare una spiegazione a un numero così enorme di morti”.
Fino al vaccino rischiamo però una società senza socialità.
“Viviamo tutti una enorme contraddizione. Da un lato manifestiamo una grande voglia di comunità, e dall’altro siamo costretti a una socialità a distanza. Ma la prima urgenza oggi resta quella di salvare i corpi, se vorremo poi riprenderci per mano e ricominciare”.