Questo contributo fa parte dell’Undicesimo rapporto IO SONO CULTURA realizzato da Fondazione Symbola, Unioncamere e Regione Marche in collaborazione con l’Istituto per il Credito Sportivo.

Realizzato in collaborazione con Amabile Stifano – Dottore di Ricerca, esperto di contenuti tv e videopolitica, autore televisivo.

 

In un panorama ancora profondamente segnato dalla pandemia, anche la televisione pare aver messo in campo i propri vaccini per superare il momento e vivere un’agognata fase di ripresa, perlomeno riguardo ai contenuti da proporre. Se, da un lato, gli sconvolgimenti istituzionali hanno riportato al centro dell’informazione la telepolitica e la sua campagna elettorale permanente, dall’altro, come mai prima d’ora, la televisione si è scontrata con inedite sensibilità di linguaggio e rappresentazione, costretta a muoversi tra politically correct e una “nuova questione femminile”. La fiction, invece, si conferma una colonna del palinsesto per ascolti e gradimento, con una moltiplicazione delle protagoniste femminili e delle trame tratte da casi editoriali di successo. Infine, anche l’intrattenimento si rinnova: alla gara vera e propria e alla vittoria di un montepremi, si sostituisce la voglia di creare un’atmosfera giocosa. L’importante non è più né vincere né partecipare, ma intrattenere divertendosi.

Tra il 1° ottobre 2020 e il 31 maggio 2021, 22 milioni di persone hanno seguito i programmi televisivi da una tv connessa, con un +39% rispetto alla scorsa stagione: un vero cambio di passo per la fruizione tramite smart-tv.

In confronto alla stagione 2019-2020, la prima in epoca Covid, l’ascolto complessivo segna un -2,2%. Si tratta di un lieve calo: 11,3 milioni dell’attuale stagione, rispetto agli 11,6 milioni del 2019-2020. Ma è secco il progresso rispetto all’ultima stagione prima della pandemia (2018-2019), quando il totale nel giorno medio era stato di 10,4 milioni di persone. Al top della graduatoria per gruppi televisivi si conferma la Rai, con un ascolto medio di 4,2 milioni nei 243 giorni della stagione, pari al 36%, seguita da Mediaset al 32,5%; al terzo posto Discovery con il 7,2%. Nella graduatoria del giorno medio, Rai1 è ancora la rete più seguita, con 1,9 milioni e il 17%; segue Canale 5 con 1,8 milioni di spettatori medi e il 15,9%; in terza e quarta posizione si collocano le altre due generaliste del servizio pubblico, con Rai3 al 7,6% e Rai2 al 4,8%[1].

Se si esclude la pandemia – che ha grossomodo riversato in tv gli stessi stilemi e codici cui aveva abituato il telespettatore nella stagione precedente – l’informazione televisiva quest’anno ha visto un forte ritorno della telepolitica.

Paradossalmente, in Italia, una crisi di governo può portare verso una normalizzazione mediatica, o quantomeno tendervi, seppur in epoca Covid, come se l’instabilità politica e i suoi maggiori sconvolgimenti fossero il contesto più familiare al racconto giornalistico, soprattutto televisivo.

È il 2 febbraio e Sergio Mattarella prende in contropiede tutto il giornalismo televisivo fin lì impegnato in estenuanti speciali e “maratone” per provare ad anticipare gli eventi, senza riuscirvi. Il Presidente affida l’incarico a Mario Draghi in pieno access prime time, tra le 21.13 e le 21.20, e 8 milioni di italiani ascoltano il suo discorso. Curiosamente, la platea di quella sera è divisa in modo simmetrico: altri 8 milioni di telespettatori sono infatti sintonizzati sulla semifinale di Coppa Italia tra Inter e Juventus. Il giorno dopo, alle 13.30, i due minuti in cui Draghi comunica di accettare l’incarico sono visti da oltre 11 milioni di persone, con il 65% di share. La tv si trova così per la prima volta di fronte a un presidente del Consiglio di cui conosce molto poco e che si concede ancora meno. Innanzitutto, non possiede social network e fin da subito imprime una frenata anche agli account istituzionali: nei primi due mesi e mezzo dal suo insediamento, l’account Instagram di Palazzo Chigi pubblica solo 26 post (per avere un termine di paragone, nello stesso periodo di riferimento, il secondo governo Conte era arrivato a 57). In secondo luogo, Draghi spaventa la tv con quei soli 120 secondi concessi in video durante i primi dieci giorni delle consultazioni, tanto da paventare un “addio allo storytelling” per accogliere i “silenzi istituzionali”[2]; un nuovo corso, insomma, con “il potere del silenzio che batte i tweet e le barzellette”[3]. Al disorientamento dell’informazione e del racconto da talk-show,

la televisione risponde con un altro linguaggio che in questa stagione ha ritrovato una nuova verve, la comicità

al 13 febbraio, giorno in cui entra in carica il suo esecutivo, Draghi annovera già quattro imitazioni, da Maurizio Crozza a Neri Marcoré, da Dario Ballantini ad Andrea Perroni. Il linguaggio della satira riesce infatti a inquadrare quello che il giornalismo fatica a mettere a fuoco in mancanza di informazioni o circostanze specifiche. È l’idea che Draghi trasmette, il mondo di riferimento dal quale proviene a consentire lo sviluppo di un ritratto divertente ed efficace in televisione, benché non basato sui fatti della stretta attualità. Il silenzio presidenziale, come è noto, si è poi smorzato, con interventi pubblici e conferenze stampa sempre più frequenti, a cominciare dal primo, l’8 marzo, sulla parità di genere. Tuttavia – e questo è il punto – senza mai approdare a un’ospitata in un talk show televisivo.

 

Di tutt’altro tipo il discorso sui volti più familiari della telepolitica nostrana. Perché, se è vero che “la democrazia non è un reality-show” – come affermato da Matteo Renzi il giorno in cui si è aperta di fatto la crisi di governo – è altrettanto evidente che il rapporto tra gli attori fondamentali del sistema democratico, ossia i partiti e i loro leader, e la televisione ha mostrato negli ultimi mesi di questa stagione un intreccio più fisiologico che collaborativo. Lo dimostra il dibattito scatenatosi per il tweet di sostegno a Barbara D’Urso postato da Nicola Zingaretti[4]: una polemica dalle pretese quasi identitarie che ha fagocitato anche le dimissioni del segretario del Pd, avvenute negli stessi giorni e ribadite – in esclusiva tv – proprio negli studi televisivi della conduttrice di Canale5. Il suo successore Enrico Letta, d’altro canto, era stato fin lì impegnato come ospite fisso a Propaganda Live, la trasmissione condotta da Diego Bianchi, in qualità di “vaso degli esteri”, vale a dire esperto di affari internazionali. E il giorno dopo aver accettato la sua candidatura a segretario del partito, Letta è subito in diretta nel programma di La7; il conduttore non esita: “Ma chi te lo ha fatto fare?”. Letta, cavalcando il tono tipico dello show, ammette: “Forse voi mi avete molto spinto, guarda, ti confesso…”[5]. Due giorni dopo Propaganda Live, il nuovo segretario del Pd è ospite di Fabio Fazio: una doppia scelta, questa sì mediatico-identitaria, per sottolineare discontinuità con la segreteria precedente. La politica, dunque, utilizza la tv non più solo come spazio di visibilità, ma anche come brand cui associare i propri valori, soprattutto nel momento più sensibile, quello del lancio di un nuovo corso.

Ma il vero sorpasso della telepolitica è arrivato da destra. Giorgia Meloni ha confessato in tv di essere stata abbandonata da suo padre all’età di un anno: “E quando è morto, non sono riuscita a provare nessuna emozione […]. Lì ho capito che nella mia anima c’era un pozzo dove io avevo infilato questa cosa”[6]. Ovviamente non è la prima volta in cui un politico racconta in televisione il proprio privato. Tuttavia, farlo ponendo il focus su una propria fragilità così intima e dirompente è senza precedenti, ancor di più se si è un politico di destra, dove a vigere è da sempre l’epica muscolare del capo. In questo caso la narrazione, figlia anche delle dinamiche di comunicazione d’oltreoceano, è mutuata scrupolosamente dalla televisione degli ultimi tempi: non c’è talent show che si rispetti, per non parlare dei reality, che non proponga una storia del genere nel proprio cast al momento della presentazione. È la retorica del superamento e del riscatto dalle difficoltà che, affinché il processo sia compreso dal pubblico, devono essere raccontate. Infatti, oltre all’abbandono del padre, nella confessione di Giorgia Meloni c’è spazio anche per il bullismo subìto da piccola e per le complicazioni dell’essere contemporaneamente madre e leader di partito. Anche qui, il luogo televisivo conta, e molto. Per questo annuncio sceglie Verissimo, un programma del sabato pomeriggio quasi totalmente dedicato a contenuti di spettacolo.

Non è stata solo la telepolitica a regalare tendenze impreviste all’annata tv. Mai come in questa stagione, infatti,

il piccolo schermo è stato travolto da casi in cui la rappresentazione televisiva si è scontrata con inedite sensibilità di linguaggio – tra cui un marcato politically correct d’importazione – e recenti istanze legate alla “nuova questione femminile”, se si consente la definizione.

 

Sul primo argomento, si ricordano: le polemiche che hanno investito Striscia la Notizia per l’imitazione dei tratti somatici cinesi da parte di Gerry Scotti e Michelle Hunziker (e che ha portato alle pubbliche scuse di quest’ultima); le espulsioni avvenute al Grande Fratello Vip in seguito a episodi ritenuti razzisti o blasfesmi; le critiche verso Tale e Quale Show, colpevole di blackface, ossia truccare di nero il viso dei concorrenti chiamati a interpretare artisti di colore (con la Rai che si è poi impegnata affinché non accadesse più); la bufera esplosa intorno al monologo recitato durante Felicissima Sera, in cui Pio e Amedeo si scagliavano proprio contro il politically correct. Ancora più numerosi gli sconvolgimenti sulla questione femminile e, anche qui, per meglio renderne la portata, si procede elencandone i casi più eclatanti: le accuse contro Striscia la Notizia per body shaming nei confronti della giornalista Rai Giovanna Botteri; Luciana Littizzetto tacciata di sessismo per alcune battute su una foto di Wanda Nara durante Che Tempo Che Fa; Sanremo e le polemiche sull’uso del termine “direttore” quando a dirigere l’orchestra è una donna; ancora Sanremo e le proteste sulla consegna dei fiori, a fine esibizione, destinata solo alle donne; la sospensione del programma Detto Fatto a seguito di uno sketch ritenuto offensivo per le donne; il dibattito sul cat-calling (molestie di strada, come fischi o apprezzamenti di cattivo gusto rivolti alle donne) nato sul web e tracimato per settimane in tv; gli episodi di sessismo del Grande Fratello Vip con protagonisti Filippo Nardi e Mario Balotelli; il “caso Aurora Leone”, la comica che ha abbandonato la Partita del Cuore perché sarebbe stata discriminata in quanto donna; per concludere con Rula Jebreal, la giornalista che ha declinato l’invito di Propaganda Live quando ha saputo di essere l’unica ospite donna prevista in puntata.

Lungi dal voler qui districare un discorso molto complesso che, com’è evidente, racchiude casi anche molto diversi tra loro, emergono almeno due dati mediatici da sottolineare perché presenti in tutti gli esempi citati. Innanzitutto il ruolo del web, più precisamente dei social: da tempo cani da guardia dei contenuti televisivi, ne sono ormai divenuti il tribunale. E, purtroppo, un tribunale senza appello. In secondo luogo, la tv da sempre semplifica per rappresentare. Non solo, fa anche perno su codici storicamente e collettivamente riconosciuti per essere immediatamente comprensibile. Se cambiano queste dinamiche, diventando per di più complesse e non universalmente acquisite, la tv ha bisogno di tempo per assimilarle – a differenza dei social network – e poterle sviluppare in modo adeguato nel proprio racconto, foss’anche sottotraccia. Da qui, la sfida per i prossimi anni nel linguaggio televisivo: mediare tra nuove legittime sensibilità e il pubblico, evitando l’esclusività di un dibattito elitario o generazionale da una parte e le storture dell’”Era della suscettibilità”[7] dall’altra.

Una disinvoltura completamente diversa sembra invece esprimere la televisione quando si guarda al genere che ormai rappresenta l’asse portante del palinsesto: la fiction.

Infatti, se per lo share bisogna ancora tenere presente il sabato sera targato Maria De Filippi tra C’è Posta per Te e Amici, in termini di numero di telespettatori – escludendo i contenuti-evento – anche quest’anno i prodotti di maggior successo sono, appunto, fiction. Il Metodo Catalanotti, puntata del Commissario Montalbano andata in onda a marzo, ha superato i 9 milioni di telespettatori e Doc – Nelle Tue Mani, per non fare che un altro esempio, tra ottobre e novembre ha spesso superato i 7 milioni e mezzo, per chiudere con gli 8.509.000 dell’ultimo episodio.

 

E non è tutto: nel periodo che va dal 1° ottobre al 25 aprile, il genere ha occupato il 30% dell’offerta complessiva delle generaliste in prima serata, con ascolti altissimi in particolare sull’ammiraglia del servizio pubblico. Nello specifico, ha coperto oltre la metà dell’offerta di Rai2 (55.9%) e di Rai1 (52.4%), con al terzo posto Italia1 (40.6%)[8]. Un trend iniziato da anni ma deflagrato in questa stagione è il giallo letterario, con le avventure del protagonista investigatore tratte da casi editoriali di successo: Màkari, Il Commissario Ricciardi, L’alligatore e i già citati Le Indagini di Lolita Lobosco e Petra.

Inoltre, tra le tendenze più evidenti delle ultime produzioni italiane, in aggiunta all’ambientazione sempre più proiettata al sud, c’è di sicuro una forte moltiplicazione delle protagoniste femminili: Le Indagini di Lolita Lobosco, Mina Settembre, Petra, Anna, Domina, ma anche Vittoria Puccini in La Fuggitiva e Sabrina Ferilli in Svegliati Amore Mio. Si tratta di un nuovo tipo di personaggi che, pur strizzando l’occhio al pubblico generalista, in molti casi non rinunciano a proporre un profilo psicologico più complesso e a tratti sorprendente, tanto da diventare spesso un elemento centrale del racconto. Difficilmente non riconducibile anche al discorso sul femminile trattato prima, questa propensione sembra essere già una realtà nel cinema d’oltreoceano: analizzando ogni anno i primi 100 film per incassi in Nordamerica, dal 2007 al 2019 le protagoniste (e co-protagoniste) sono più che raddoppiate[9], tanto da aver portato qualcuno a chiedersi se affidare il ruolo principale a una donna non possa essere di per sé una chiave per il successo al botteghino[10].

Restando in ambito di serialità, Netflix con Sanpa è riuscita per la prima volta a orientare il dibattito pubblico del Paese, monopolizzato per giorni dalle vicende illustrate nella docu-serie: un vero cavallo di Troia per le ambizioni generaliste della piattaforma, con tanto di forte battage pubblicitario concentrato sui media tradizionali al momento del lancio in modo da aumentarne la visione collettiva e simultanea, proprio come accade nella tv tradizionale. Nonostante il soggetto, l’operazione ha conservato un racconto dal piglio internazionale, come da statuto Netflix, con una dichiarata ed evidente ispirazione narrativa alla statunitense Making a Murderer. Disponibile in 190 Paesi, ha quindi dovuto prestare anche una forte attenzione al pubblico straniero nelle scelte di contenuto, a volte rinunciando a dei passaggi per essere più comprensibile.

Infine, anche l’intrattenimento ha mostrato una precisa direzione: leggera, anzi leggerissima. Nuovi programmi o trasmissioni che, sia pur non alla prima edizione, hanno trovato un maggiore riscontro da parte del pubblico.

Prodotti come Name That Tune, Avanti un Altro! Pure di Sera, lo stesso LoL di Amazon Prime, il meno fortunato Game of Games, ma anche le ultime stagioni di Deal with It, Stasera Tutto È Possibile, All Together Now e la versione con concorrenti vip dei Soliti Ignoti – Il Ritorno sono tutti accomunati dalla stessa caratteristica, solo sporadicamente sfruttata negli anni precedenti[11].

 

La parte game del meccanismo è del tutto piegata al puro intrattenimento, non conta aggiudicarsi la vittoria. Certo, c’è una gara, ci sono le prove da superare, chi vince e chi perde, ma il vero scopo del programma è creare un clima divertente e, soprattutto, divertito. Infatti, per aumentarne l’effetto, queste trasmissioni non sono aperte alle persone comuni ma solo alle celebrities, più capaci di creare quell’atmosfera e anche più credibili nel fare spettacolo e gareggiare senza preoccuparsi della vittoria finale o di un eventuale montepremi che, quando c’è, viene infatti devoluto in beneficenza. Una tendenza televisiva che, senza scomodare una spicciola sociologia, sembra cucita addosso al momento storico: da un lato, è possibile godersi il fare squadra dei concorrenti senza distanziamento sociale; dall’altro, un clima così “divertito” – quasi assente nel 2020 – sembra preludere a una ripartenza. Vero o no, poco importa: è sempre televisione.

[1] E. Bruno, Stagione Tv 2020/21: vince Rai1, ma la vera sorpresa è Rai3. Mattarella e Conte in simulcast, Montalbano, Sanremo, Argentero e Ranieri più visti, Prima Comunicazione Online, 11 giugno 2021. Nell’articolo si citano i dati riportati dall’Osservatorio Studio Frasi.

[2] M. Panarari, Addio storytelling, ecco i silenzi istituzionali: così Draghi rivoluziona le parole del potere, La Stampa, 22 febbraio 2021.

[3] F. Ceccarelli, Il potere del silenzio che batte i tweet e le barzellette, La Repubblica, 13 febbraio 2021.

[4] Alla notizia della probabile chiusura anticipata del programma Live! Non è la D’urso, il segretario del Pd Nicola Zingaretti aveva twittato: “In un programma che tratta argomenti molto diversi tra loro hai portato la voce della politica vicino alle persone. Ce n’è bisogno!”.

[5] D. Bianchi, E. Letta, Propaganda Live, La7, 12 marzo 2021.

[6] G. Meloni, Verissimo, Canale 5, 8 maggio 2021.

[7] G. Soncini, L’Era della suscettibilità, Marsilio, Venezia, 2021.

[8] Osservatorio Studio Frasi, cit. in Fiction regina dei palinsesti, domina Rai1, Ansa, 4 maggio 2021.

[9] https://assets.uscannenberg.org/docs/aii-inequality-leads-co-leads-20200103.pdf

[10] https://www.bbc.com/news/world-us-canada-46543086

[11] Un’altra caratteristica comune a questi programmi, fatta eccezione per Avanti un Altro!, è quella di essere tutti adattamenti italiani di format stranieri.