«Un Paese senza», aveva scritto nel 1980 Alberto Arbasino, sottolineando acutamente limiti e guasti di un’Italia povera di senso civico, memoria critica, cultura dello sviluppo. Tutto vero, naturalmente. Ancora oggi. Ma tutto parziale. Perché, senza nulla togliere all’intelligenza di Arbasino “venerato maestro”, varrebbe la pena parlare anche di “un Paese con…”. Cioè con sorprendenti capacità di crescita dopo le crisi determinate dalla pandemia e poi dalla rottura degli equilibri internazionali con la guerra in Ucraina (un aumento del Pil del 10,9% tra ’21 e ’22, il migliore nell’area del G7, come non succedeva dai tempi del “boom” degli anni Cinquanta e Sessanta). Con una straordinaria vitalità economica e sociale (ne sono testimonianza le attività dei soggetti del Terzo Settore e del volontariato). E con una robusta inclinazione alla sostenibilità, ambientale e sociale, che pone le nostre imprese all’avanguardia europea (ne fanno fede i rapporti di Symbola sulla green economy). Paese complesso, dunque, l’Italia. Irriducibile a un semplicistico paradigma di area critica e di mancato sviluppo. Senza perdere di vista i punti di debolezza, i disagi sociali e i ritardi politici per le riforme di modernizzazione, vale la pena fermare l’attenzione su quel che funziona, concentrandosi sul mondo dell’impresa, fattore essenziale di sviluppo. Come fa Severino Salvemini, economista di robusta competenza e sofisticata cultura, in Il quid imprenditoriale (Egea), raccontando 53 storie aziendali «oltre la retorica del Made in Italy» e documentando i processi di fondo di un’economia che, nonostante tutto, crea valore, benessere, innovazione, lavoro. Storie dense di «orgoglio industriale» e di solide basi di sviluppo, grazie alla leva del «modello originale» di imprese, in gran parte di natura familiare e ancora radicate nei territori d’origine anche quando conquistano le nicchie a maggior valore aggiunto sui mercati mondiali. Sono industrie delle cosiddette “4A” (abbigliamento, arredamento, agroalimentare e soprattutto automazione meccanica), forti d’una originale cultura d’impresa capace di unire la consapevolezza della memoria al gusto per il futuro (parecchie hanno, appunto, organizzato un vivace museo o archivio d’impresa) e attente ai valori del “bello e ben fatto”, a prodotti e servizi pensati e realizzati con intelligente flessibilità, “su misura” per la clientela internazionale più esigente. Salvemini insiste molto sulle «componenti immateriali» che caratterizzano le imprese del “quarto capitalismo”, sulla creatività e la qualità manifatturiera. E scrive pagine di grande interesse sulle culture organizzative e sugli intrecci tra visione strategica delle famiglie azioniste e responsabilità di gestione dei manager, tutti comunque legati a una “cifra distintiva”: «La passione per il fare, radicata in un mondo di mestieri e di saperi che qualificano l’Italia». Saperi, appunto. Cultura diffusa nei territori segnati da una lunga e articolata storia della bellezza, considerata come valore estetico ma anche come valore economico di qualità della vita e di distintività di prodotti e servizi. Design, nelle più recenti caratterizzazioni di manifatture e servizi. E attenzione per il benessere dei dipendenti e di tutti gli altri stakeholders: «Un wellbeing come una filosofia autentica e interiorizzata». Gli esempi di welfare aziendale citati nel libro ne sono conferma. Se ne ricava un’altra costante: una idea diffusa dell’innovazione non solo e non tanto come automazione high tech, ma come pensiero generale che investe prodotti e processi produttivi, materiali, servizi, linguaggi, criteri di governance e relazioni industriali. E che si traduce in un paio di formule di sintesi: la «cultura politecnica» delle nostre imprese, la loro originale inclinazione all’«umanesimo industriale». Sono caratteristiche che, proprio in nome della competitività del sistema Paese, meriterebbero una maggiore e migliore attenzione da parte di chi governa, con una lungimirante politica economica e industriale di respiro europeo. L’orizzonte, dunque, è quello di un’Italia attiva, produttiva, capace di futuro. Da valorizzare. Tenendo ben a mente la lezione di Franco Modigliani, premio Nobel per l’economia nel 1985, che sapientemente Salvemini ricorda in esergo: «Le capacità imprenditoriali degli italiani sono uniche. Se avesse un sistema politico, amministrativo, sociale serio, l’Italia sarebbe il primo Paese al mondo. Davanti a tutti. Anche agli Stati Uniti».