La rivoluzione produttiva che il cambiamento climatico rende urgente estinguerà alcune professioni e stravolgerà settori centrali come quello dell’automotive. Eppure, la rivoluzione green potrebbe creare più posti di quanti ne cancelli. Perché questo avvenga occorre però una programmazione che coinvolga imprese e governo. E servono tanti soldi.
Ogni transizione, da che mondo è mondo, produce una schiera di mestieri dimenticati. Dall’accenditore dei lampioni a gas che nell’Ottocento rischiaravano le città di notte, fino al tagliatore di ghiaccio prima dell’avvento delle moderne tecniche di refrigerazione. La transizione energetica che si realizzerà da qui al 2050 non sarà da meno. Ne è consapevole la Commissione europea, che nei documenti del maxipiano per il clima battezzato “Fit for 55” chiarisce che l’impatto sociale e le ripercussioni sul mercato del lavoro saranno considerevoli. Ne è ben consapevole anche il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, quando, nel corso del G20 di Napoli sull’ambiente, recita il refrain «nessuno dovrà essere lasciato indietro». Guardiamoci in faccia: qualcuno indietro ci resterà di sicuro. Ma la sfida green potrebbe anche creare più lavori di quelli che farà soccombere.
«Troppo spesso si sottolineano i problemi connessi con la crisi climatica e troppo poco le opportunità», commenta Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola e tra i fondatori di Legambiente. «Ci sono interi settori in movimento che producono lavoro dentro questa sfida. Il punto è capire se i Paesi che vogliono guidare la transizione, l’Europa in primis, decideranno di aprire altri negozi Blockbuster o punteranno su altro». Della serie: alcuni comparti, al pari del franchising di noleggio film, spariranno comunque. E la scelta è adeguarsi o perire.
In effetti, scongiurare la crisi climatica potrebbe anche giovare al mercato del lavoro secondo uno studio realizzato da Rff-Cmcc European Institute on Economics and the Environment e appena pubblicato sulla rivista One Earth. Rispettando gli obiettivi sanciti dagli accordi di Parigi – con il contenimento del riscaldamento globale ben al di sotto dei 2°C – i posti di lavoro nel settore energetico potrebbero crescere dagli attuali 8 milioni a 26 milioni entro il 2050, grazie soprattutto alla spinta dell’industria eolica e solare (la ricerca è tarata su 50 Paesi, compresi i principali produttori di combustibili fossili). Di questi 26 milioni, la stragrande maggioranza (84 per cento) sarebbe nel settore delle energie rinnovabili e solo l’11 per cento in quello dei combustibili fossili.
Un totale capovolgimento, dato che allo stato dell’arte nei combustibili fossili lavorano 8 occupati su 10 del settore energetico. Non è un caso che nel 2016 Donald Trump, durante la campagna per le elezioni presidenziali, abbia fatto riferimento ai minatori di carbone per ben 294 volte nei suoi comizi. Persino i politici verdi e gli ambientalisti invocano sempre una “transizione giusta” per i lavoratori del comparto dei combustibili fossili.
«È preferibile riconvertire i settori tradizionali dell’energia piuttosto che farli sparire, salvaguardando posti di lavoro e competenze cresciute nei territori in decenni di attività», commenta il presidente di Confindustria Energia Giuseppe Ricci. Che traccia anche una direzione possibile: «La trasformazione si può fare puntando sui biocarburanti – l’esempio delle bioraffinerie di Venezia e Gela è emblematico – sulla cattura, lo stoccaggio e il riutilizzo della CO2, sullo sviluppo della filiera dell’idrogeno». Anche se queste soluzioni non raccolgono il placet unanime degli esperti, che non sempre le ritengono compatibili con il contrasto al cambiamento climatico. Peraltro, oggi in Italia quasi tutto l’idrogeno viene prodotto e utilizzato proprio in uno di quei settori, la raffinazione, che nella transizione energetica diventerà sempre più marginale visto il suo impatto inquinante. «Certo ci sono costi da sostenere», continua Ricci, «ma i benefici saranno enormemente superiori se pensiamo al riutilizzo delle infrastrutture e delle competenze».