Siamo un Paese poco competitivo? Niente affatto. Certo, dobbiamo lavorare parecchio: non solo sul debito pubblico, ma sulle diseguaglianze sociali, contro l’economia in nero, quella criminale, per ridurre il ritardo del Sud, per raddrizzare una burocrazia inefficace e non di rado persecutoria. Ma non siamo un Paese destinato ad un inesorabile declino. Lo dimostrano le 10 verità sulla competitività italiana messe nero su bianco con Unioncamere e la Fondazione Edison (siamo, ad esempio, uno dei soli 5 paesi al mondo ad avere un surplus commerciale manifatturiero superiore a 100 miliardi di dollari, con Cina, Giappone, Germania e Corea del Sud ).

Vorrà dire qualcosa, poi, se siamo, dopo gli Stati Uniti (che però hanno messo in campo una pesante strategia di incentivi), i protagonisti mondiali del reshoring, il ritorno in patria delle imprese fuggite all’estero [leggi Marco Fortis intervistato da Paolo Griseri su Repubblica, oppure i dati su Affari e Finanza]. Finita la sbronza della delocalizzazioni, l’Italia torna attraente per una serie di ragioni: dall’aumento del costo del lavoro nei paesi emergenti, al prezzo del petrolio salito in pochi anni a 100 euro al barile, alla necessità di rimodellare la produzione sulla base delle nuove richieste dei mercati (la moda, ad esempio: produrre in Cina non permette di lanciare sul mercato collezioni fresche ogni pochi mesi). Ma, soprattutto, è determinante la consapevolezza dell’unicità del ‘fatto in Italia’, del talento non replicabile delle maestranze nutrite nei distretti con il saper fare italiano.