Dopo avere dato spazio alle parole dei protagonisti del talk organizzato da Fondazione Symbola presso l’ADI Design Museum, ci dedichiamo ai numeri del rapporto, ovvero ai dati che (sempre ben graficamente rappresentati) aiutano la comprensione dello stato di salute del design italiano, delle sue peculiarità, dei suoi picchi e dei suoi rallentamenti.
Ermete Realacci, presidente di Symbola, con la carica poetica che spesso caratterizza i suoi interventi, ha ricordato che “l’Italia va bene quando sa fare bene l’Italia”, ovvero “quando dimostra tutto il suo valore nel produrre all’ombra dei campanili cose che piacciono al mondo”. E che l’approccio sistemico del design (sottolineato da diversi relatori) aiuta a capire che c’è molto design fuori dal design, sia in termini d’interventi, sia come opportunità lavorative ed economiche (il mondo del vino non produce solo grandi etichette bensì cultura, architetture, estetica e paesaggi). Molte aziende sono forti perché sono radicate sul territorio, perché hanno creato una frontiera dell’insieme e dell’obiettivo comune all’interno del quale il lavoro, e soprattutto il design, è chiamato a unire gli uomini. Realacci ricorda, infine, che la scommessa sui valori estetici è anche un modo per accettare la sfida della qualità e della sostenibilità. Secondo dati IPSOS, infatti, nella percezione della sostenibilità i cittadini italiani ritrovano tre fattori: etico, paura/preoccupazione, qualità. Un prodotto sostenibile è considerato un prodotto che ha una qualità superiore.
Numeri, geografie e servizi
Passiamo ai numeri reali. Domenico Sturabotti, direttore di Symbola, sottolinea che il rapporto continua ad essere un cantiere aperto, contiene il mondo del progetto ma non lo racconta nella sua interezza perché molte realtà non sono rappresentate a causa di codici ATECO non classificabili in attività prettamente culturali e creative. Il settore conta 30.000 imprese, che hanno generato nel 2020 un valore aggiunto pari a 2,5 miliardi di euro con 61.000 occupati. Le imprese si distribuiscono su tutto il territorio nazionale, con una particolare concentrazione nelle aree di specializzazione del Made in Italy e nelle regioni Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna e Veneto, dove si localizza il 60% delle imprese. Tra le provincie primeggiano Milano (15% imprese e 18% valore aggiunto nazionale), Roma (6,7% e 5,3%), Torino (5% e 7,8%). Le imprese operano per il 44% all’estero (8,9% extra EU), per il 45% su scala nazionale, mentre per il 10,8% su scala locale. Emerge dall’analisi, aspetto significativo e distintivo del design italiano, un rapporto diretto con la committenza: la stragrande maggioranza degli intervistati (l’86%) interagisce direttamente con gli imprenditori e i vertici aziendali.
Per quanto riguarda i servizi richiesti, le imprese dichiarano di fornire soprattutto consulenze su aspetti stilistici (il 58%) e di processo (25%); mentre le consulenze di carattere strategico rappresentano il 10%. A questi servizi principali, le imprese del design affiancano attività di consulenza come la comunicazione (nel 59% dei casi), il branding (52%), il marketing (46%), la R&S (44,3%) e il packaging (32,9%). La progettazione degli imballaggi registra una poderosa virata verso materiali innovativi e sostenibili, confermando per oltre il 30% l’uso dei materiali cellulosici all’interno dei progetti di packaging.
In questa edizione, il rapporto Design Economy ha dedicato un capitolo alla relazione tra il settore e la sostenibilità, relazione alla base del nuovo Bauhaus europeo lanciato dalla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen nel 2020 per contribuire alla realizzazione del Green Deal europeo.
Le competenze
Il 55,1% delle imprese di design dichiara di possedere una competenza di “medio” livello sulla sostenibilità e di “alto” livello nel 33,9% dei casi; specularmente, poco più dell’11% ritiene di avere un livello di competenza “basso” o quasi nullo. Considerando i servizi attualmente offerti, il 57,6% degli intervistati si occupa di design per la durabilità, ossia di progettare il prodotto o le sue modalità di utilizzo in modo tale da migliorarne la manutenibilità, la durata fisica e quella emozionale, mentre il 43,4% progetta prodotti che riducono al minimo l’impiego di materia ed energia e la produzione di scarti (design per la riduzione).
Nel 34% dei casi, gli intervistati progettano prodotti per facilitare il processo di riciclo (riduzione della quantità dei materiali impiegati, utilizzo di mono-materiali, impiego di materiali facilmente riciclabili e di materiali rigenerati, facilità nella separazione dei materiali). Il 31,4% offre servizi legati al design per la riparabilità e il 13,3% al design per il disassemblaggio: nel primo caso, gli intervistati lavorano in maniera tale da permettere la sostituzione di componenti o l’aggiornamento delle loro funzioni; nel secondo, puntano a progettare prodotti utilizzando sistemi di connessione reversibili, funzionali alla separazione di tutti le componenti per le diverse tipologie di materiali al fine di favorire il processo di recupero e riciclo.
Il 10,7% si occupa del design strategico per la sostenibilità (funzionale alla creazione di framework, kpi e tool per la sostenibilità ambientale) e, infine, il 5,5% si occupa di design per la rigenerazione (funzionale alla rifabbricazione di prodotti con la stessa o diversa funzione d’uso, o alla progettazione di prodotti modulari per favorire il riutilizzo di parti del prodotto).
Tra i settori che trainano la domanda di servizi di design sostenibile primeggiano l’arredo (69%), seguito dall’automotive (56%), dall’immobiliare – ceramiche, pavimenti, fino agli elementi strutturali – (38%), dall’abbigliamento (30%) e dall’agroalimentare (13,3%).
La formazione
Il terzo capitolo del report tratta il sistema formativo, a partire da banche dati fornite dal ministero dell’Istruzione. Il sistema formativo è distribuito lungo tutto il Paese: 22 Università, 16 Accademie delle belle arti, 15 Accademie legalmente riconosciute, 22 Istituti privati autorizzati a rilasciare titoli AFAM (Alta formazione artistica e musicale) e 6 ISIA (Istituti superiori per industrie artistiche). Per un totale di 291 corsi di studio, distribuiti in vari livelli formativi e in diverse aree di specializzazione. Si raggiungono punte di eccellenza con il Politecnico di Milano, a condurre la classifica per numero di laureati, che si conferma una referenza internazionale, posizionandosi primo nei Paesi UE e 5° nel mondo secondo la classifica QS World University Rankings by Subject per il design, ma prima, comunque, fra le università pubbliche. A seguire, mantengono un importante ruolo per la formazione del designer l’Istituto europeo di design (IED) e la Nuova accademia di belle arti (NABA). Complessivamente, i designer formati nel 2019 sono stati 9.362 (il 13,5% in più rispetto al 2018); di questi, due terzi risiedono al Nord, in particolare in Lombardia (49,8%).
Da quest’anno, grazie alla collaborazione con AlmaLaurea e il Career Service del Politecnico di Milano, si è aggiunto un ulteriore tassello informativo relativo alla situazione lavorativa a cinque anni dalla laurea e a cinque anni dal primo rapporto sul design. La prima stima del tasso di occupazione dei laureati magistrali biennali in design, intervistati nel 2020 a cinque anni dal titolo, restituisce un valore del 91%, superiore alla media del complesso dei laureati magistrali biennali in Italia; di questi, l’84% svolge una professione coerente con l’ambito del studio.
È possibile effettuare il download del rapporto al link symbola.net