Realizzato in collaborazione con Gianni Silvestrini, Direttore scientifico QualEnergia, Direttore scientifico Kyoto Club, Presidente Exalto.
Questo contributo fa parte del decimo rapporto GreenItaly, realizzato da Fondazione Symbola e Unioncamere, in collaborazione con CONAI, Novamont e Ecopneus.
Nel 2019 il fotovoltaico ha avuto il primato per potenza aggiunta, sia a livello mondiale che in molti paesi, tra i quali l’Italia, l’Australia, l’India, e gli Stati Uniti. Con ben 118 GW installati, il solare ha rappresentato quasi la metà dei 265 GW della nuova potenza elettrica [28].
E la corsa è destinata ad accelerare, anche alla luce dell’annuncio – per bocca del presidente Xi Jinping alla 75a sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite – che la Cina raggiungerà il proprio picco di emissioni nel 2030 per divenire carbon neutral prima del 2060.
Il crollo dei prezzi del petrolio e del metano dovuto al Covid avrebbe potuto danneggiare fortemente le fonti rinnovabili e la mobilità elettrica. Ma, come vedremo, le dinamiche sono state molto diverse e gli scenari dell’energia verde appaiono in realtà rinvigoriti.
Durante il lockdown il sistema elettrico ha anticipato futuri possibili, con un forte calo dei consumi dei fossili e un balzo delle rinnovabili che nel primo semestre hanno raggiunto il 35% della produzione elettrica mondiale e il 40% della produzione europea [29].
Gli investimenti globali green nel primo semestre del 2020 sono aumentati del 5% rispetto allo stesso periodo del 2019 [30] e, per la prima volta nella storia, nel 2021 dovrebbero sorpassare quelli dell’estrazione di petrolio e metano [31].
Il calo dei consumi e il crollo dei prezzi dei fossili a causa della pandemia ha comportato ripercussioni notevoli.
Secondo Carbon Brief, la produzione globale di elettricità dal carbone è calata del 3% nel 2019, la riduzione più grande mai registrata [32]e nel 2020 la riduzione è continuata.
Tra i casi più clamorosi di disimpegno troviamo gli Stati Uniti, malgrado gli sforzi di Trump a favore del settore. Centrali per ben 30 GW a carbone sono state chiuse negli ultimi due anni. E, secondo alcune stime, nel 2020 le rinnovabili potrebbero generare negli Usa più elettricità del carbone [33].
È probabile che il 2019 sarà ricordato anche come l’anno in cui si è raggiunto il picco dei consumi di petrolio perché le dinamiche della mobilità cambieranno dopo il Covid e sta per fare irruzione la mobilità elettrica.
Il calo della domanda a causa della pandemia ha comportato non solo il fallimento di molte società dello shale Usa, ma perdite economiche e licenziamenti anche per le multinazionali.
Ed è interessante notare il deciso cambio di strategie di alcuni gruppi.
Clamoroso il caso della Bp che intende entro il 2030 ridurre del 40% la produzione di petrolio e gas per lanciarsi nelle rinnovabili con l’obbiettivo di installare 50.000 MW. E la Shell intende addirittura diventare il primo produttore di elettricità verde. Va citato infine il coinvolgimento della norvegese Equinor nella realizzazione del complesso Dogger Bank che prevede tre megacentrali eoliche per complessivi 3.600 MW nel Mare del Nord in grado di soddisfare il 5% dei consumi elettrici del Regno Unito [34].
Sono tutti segnali che indicano spostamenti di giganteschi finanziamenti dai fossili alle rinnovabili. Rinnovabili che in questo decennio potrebbero attrarre, secondo Goldman Sachs, investimenti per 16.000 miliardi $ e creare 20 milioni di nuovi posti di lavoro [35].
Solare batte nucleare 10 a 1
Come cambiano i tempi. Nel 1954 Lewis Strauss, presidente della Commissione dell’Energia Atomica degli Usa (Una) teorizzava che l’elettricità nucleare sarebbe diventata così poco costosa da rendere inutile il contatore. E solo una trentina di anni fa il costo dell’elettricità solare era elevatissimo, 800 €/MWh. Ma il nuovo nucleare è diventato sempre più caro, mentre i prezzi del solare sono crollati.
Ad agosto i vincitori di una gara per impianti fotovoltaici in Portogallo hanno proposto un valore incredibilmente basso €11,1 €/MWh, un quarto del prezzo medio della generazione termoelettrica in Italia. E non si può non fare il paragone con l’accordo raggiunto tra la società elettrica francese EDF e il Regno Unito per la costruzione del reattore nucleare di Hinkley Point che prevede un costo di 113 €/ MWh per 35 anni.
Peraltro la stessa EDF si è aggiudicata una gara per una centrale fotovoltaica da 1.500 MW promossa dagli Emirati Arabi Uniti, con una quotazione solo lievemente superiore rispetto a quella portoghese.
Se guardiamo alla nuova potenza installata nel 2019, sole e vento hanno battuto il nucleare per venti a uno. E analizzando, come è giusto, l’elettricità complessivamente generata basteranno due-tre anni perché eolico e fotovoltaico superino il contributo del nucleare.
Certo, le centrali atomiche consentono di generare elettricità con una quantità limitata di emissioni climalteranti (considerato l’intero ciclo del combustibile), ma hanno due difetti che ne sconsigliano l’espansione. I costi, come abbiamo visto, e i tempi. La centrale finlandese di Olkiluoto, che doveva entrare in funzione nel 2009, diventerà operativa solo nel 2022 e ritardi analoghi si sono registrati con la centrale francese di Flammanville.
Entrambe hanno visto lievitare incredibilmente i costi. Per l’impianto francese erano stati preventivati 3,4 miliardi €, ma le ultime stime parlano di 12,4 miliardi.
Dunque è molto più sensato, nel poco tempo a disposizione per tagliare le emissioni mondiali, puntare con decisione su rinnovabili ed accumuli.
Mancano gli spazi: cerchiamoli in acqua con il vento
Per raggiungere l’obbiettivo della produzione del 100% di elettricità rinnovabile ci vorranno molte decine di milioni di impianti. Il numero sarà ancora maggiore se l’obbiettivo verde si estenderà a tutti i consumi energetici.
Da qui una riflessione sulla necessità di ridurre i consumi, non solo grazie ad interventi di efficienza ma anche adottando modelli di vita più sobri.
Rimane comunque la necessità di cercare di contenere il consumo di suolo. Una delle possibili soluzioni, già ampiamente utilizzata, riguarda l’eolico in mare aperto.
L’energia eolica offshore si è sviluppata nel Nord Europa e vede promettenti sviluppi anche in Cina. In realtà il potenziale globale è enorme e la sua diffusione nel medio e lungo periodo sarà molto ampia.
In Europa sono funzionanti 20.000 MW, mentre le installazioni in Cina superano i 4 GW.
La potenza dei futuri aerogeneratori è di una decina di MW, ma si punta ormai a macchine di 15-20 MW [36].
L’Europa possiede eccezionali risorse e, secondo la IEA (International Energy Agency), l’eolico in mare potrebbe diventare la principale fonte di produzione di energia elettrica in Europa entro una ventina di anni [37].
Interessante il caso della Polonia, che al momento non ha alcun impianto ma che potrebbe progressivamente eleminare le centrali a carbone proprio grazie all’eolico off-shore.
Le installazioni non si sono fermate neanche durante la pandemia. Anzi, gli investimenti sono più che quadruplicati nella prima metà del 2020 rispetto al 2019 grazie al continuo calo dei costi e alla corsa prima della cessazione dei sussidi cinesi alla fine del 2021.
C’è poi una novità, la tecnologia flottante che consente installazioni in acque profonde anche centinaia di metri, che è destinata ad accelerare ulteriormente il contributo dell’eolico.
Le prime sperimentazioni sono state avviate dalla compagnia petrolifera norvegese Statoil/Equinor che ha sfruttato il know-how acquisito con le piattaforme petrolifere.
Il costo della tecnologia flottante è ancora molto elevato, ma si pensa che anch’esso calerà rapidamente. Ne sono certi gli investitori che si sono lanciati in una corsa, che al momento vede progetti per ben 26.000 MW.
I parchi eolici flottanti potranno essere collocati a 30-40 km dalla costa consentendo di minimizzare gli impatti visivi, fattore che ha a lungo bloccato i progetti negli Usa.
Stupisce che in Italia si trovino oppositori tra gli amministratori di alcune Regioni, coma la Sardegna e l’Emilia Romagna, mentre è confortante l’appoggio degli ambientalisti.
Mancano gli spazi: cerchiamoli con il fotovoltaico in acqua
Vi è un’altra applicazione interessante per la riduzione del consumo di suolo. Parliamo degli impianti fotovoltaici realizzati in bacini d’acqua, canali di irrigazione, tratti di mare. Una soluzione che consente anche di aumentare la resa dei moduli per l’abbassamento della temperatura e di ridurre l’evaporazione.
Ci sono molti piccoli impianti in funzione e ormai vengono realizzate anche centrali di notevoli dimensioni. A Piolenc, nel Sud della Francia, è stata inaugurata la più grande centrale solare galleggiante d’Europa. Si tratta di un impianto da 17 MW che occupa un terzo di un lago artificiale creato su un’ex cava mineraria. E sempre sull’acqua che ricopre l’area di un’ex miniera di carbone è stato realizzato il più grande impianto fotovoltaico galleggiante in funzione sulla scena internazionale. Siamo in Cina, nella provincia di Qinghai, e la centrale copre una superficie di 23 chilometri quadrati con una potenza di 850 MW. Record che verrà battuto dalla Corea del Sud dove si sta pianificando una megacentrale solare da 2.700 MW all’interno di un tratto di mare protetto da una diga. Vi sono poi i bacini delle dighe idroelettriche, il cui potenziale è gigantesco. Secondo una ricerca del National Renewable Energy Laboratory del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, utilizzando il 20% delle superficie idrica di questi invasi si potrebbe, cautelativamente, generare una quantità di elettricità pari al 14% del consumo elettrico mondiale [38].
Nel 2019 il fotovoltaico ha avuto il primato per potenza aggiunta, sia a livello mondiale che in molti paesi, tra i quali l’Italia, l’Australia, l’India, e gli Stati Uniti. Con ben 118 GW installati, il solare ha rappresentato quasi la metà dei 265 GW della nuova potenza elettrica. E la corsa è destinata a continuare.
Mancano gli spazi: abbiniamo il sole all’agricoltura
E passiamo ad un’interessante soluzione che consente di ottimizzare l’uso del suolo accoppiando la coltivazione di prodotti agricoli alla realizzazione di impianti fotovoltaici, spesso ad inseguimento con i moduli a diversi metri di altezza. La soluzione è ancora più efficace quando si parla di terreni abbandonati o aridi.
Un esempio interessante viene dalla Cina dove da cinque anni il gruppo Baofeng gestisce 107 chilometri quadrati di terreno desertificato nella provincia di Ningxia. Ha iniziato piantando erba medica per preparare il suolo e quindi ha realizzato una centrale fotovoltaica da 640 MW con una coltivazione di bacche di goji con irrigazione a goccia posta al di sotto dei moduli solari. La zona ha pochissime precipitazioni e si sfrutta il fatto la che la centrale solare riduce di un terzo l’evaporazione. I risultati sono stati interessanti, con un aumento dell’85% della copertura vegetale e un miglioramento dell’ecosistema della regione. Si sono diffusi piccoli animali selvatici come passeri, lepri e fagiani e si è riusciti a far rivivere una distesa desertica.
La centrale cinese non è un caso isolato e si stima che attualmente siano in funzione nel mondo 3.000 MW di impianti agrofotovoltaici.
Le soluzioni sono molto diversificate. Ci sono piccoli sistemi di qualche MW, come quelli sperimentati da Baywa r.e in Olanda per coltivare lamponi con moduli solari semitrasparenti.
E c’è chi, come la tedesca Next2sun, ha sperimentato installazioni solari verticali con moduli bifacciali orientati est-ovest (invece che a sud) per generare più energia nelle ore di punta mattutine e serali. Una soluzione che sarebbe molo utile in realtà come la California con un forte picco della domanda nel secondo pomeriggio.
E anche in Italia diversi progetti sono in pista, anche dell’ordine di decine di MW.
Reti e tubi: sinergie e conflitti
La rete elettrica è sempre più interconnessa tra Paese e Paese e ci sono buone prospettive di aumentare i collegamenti tra diversi continenti. È una scelta ovvia in uno scenario climatico spinto, dove le rinnovabili erodono continuo spazio alle centrali a carbone e gas e devono poter far viaggiare l’elettricità a lunghe distanze per gestire le fluttuazioni delle produzioni solari ed eoliche.
Anche i metanodotti si estendono sempre di più. Ma nel caso del gas il futuro è incerto perché il metano deve confrontarsi con problemi di fondo legati all’evoluzione della domanda, un rischio inesistente per gli elettrodotti considerata la spinta all’elettrificazione nel settore civile e in quello dei trasporti. Questa preoccupazione è chiaramente maggiore nei paesi che hanno deciso di puntare ad una neutralità climatica nell’arco di 25-30 anni.
In California, ad esempio, diverse città hanno imposto l’opzione “all electric” per le nuove case, evitando così l’allacciamento alle reti di metano. Addirittura, la più grande azienda di gas ed elettricità dello Stato, la Pacific Gas and Electric Company, ha chiesto che la nuova normativa statale sulle costruzioni proibisca l’allacciamento alla rete del metano per tutti i nuovi edifici, in modo da evitare la realizzazione di reti di distribuzione del gas inutilizzabili già prima del 2045, data fissata dalla California per avere elettricità carbon neutral [39].
Di fronte al concreto rischio connesso agli scenari di decarbonizzazione, negli scorsi anni si è pensato a rinverdire il gas da trasportare grazie all’aggiunta di biometano. La produzione attraverso digestori anaerobici di biogas ha avuto negli ultimi anni un’interessante evoluzione. Si prevede il doppio raccolto in modo da evitare di sottrarre suolo all’agricoltura e l’utilizzo del digestato per fertilizzare ed arricchire l’humus dei terreni.
Per quanto il potenziale di biometano sia molto interessante, esso non può essere sufficiente ad avere un gas “green” a metà secolo. Ed ecco che l’esigenza di trovare un futuro certo alle reti nazionali ed internazionali del gas viene dall’idrogeno, verde anch’esso ovviamente. Questo passaggio consente di centrare due obbiettivi. Rende accettabile il gas negli scenari climatici e, soprattutto, apre nuovi mercati considerando che il ruolo del metano è destinato a ridursi drasticamente.
Una opzione quest’ultima però, l’espansione della domanda, su cui le società che gestiscono metanodotti sembrano attribuire speranze eccessive. Mentre alcune applicazioni sono importanti, anzi essenziali, in altri comparti, pensiamo all’edilizia o al settore dell’auto, la diffusione dell’idrogeno è illusoria.
E poi c’è il tema della sua produzione. Gli scenari dell’idrogeno verde fanno affidamento sulla produzione in paesi che hanno ottime risorse rinnovabili e molto spazio per esportarlo attraverso idrogenodotti (l’Africa del Nord, l’Australia, il Messico…). Ma la disfida tra tubi e cavi è aperta. Un esempio viene proprio dall’Australia, al momento il maggiore esportatore di carbone al mondo. Considerando il potenziale solare ed eolico e il probabile calo delle vendite di carbone, il Paese sta facendo progetti per uno sfruttamento su larga scala sperando di poter vendere idrogeno al Giappone, alla Corea del Sud e magari all’Europa.
Se però l’esportazione di idrogeno è ancora al livello di ipotesi, più concreto è lo scenario per l’esportazione di elettricità verde, come dimostra il progetto da 16 miliardi $ per collegare l’Australia con Singapore con un elettrodotto sottomarino ad alta tensione in corrente continua di 3.700 km per trasportare l’elettricità generata da mega-impianti solari e parchi eolici per complessivi 15 GW [40].
Durante il lockdown il sistema elettrico ha anticipato futuri possibili, con un forte calo dei consumi dei fossili e un balzo delle rinnovabili che nel primo semestre hanno raggiunto il 35% della produzione elettrica mondiale e il 40% della produzione europea.
S’avanza l’onda dell’idrogeno
Come è noto, l’idea di puntare alla produzione di idrogeno con le rinnovabili e ad un suo uso su larga scala ha visto nel tempo molti sostenitori. L’ultimo è stato Rifkin che con il suo “L’economia dell’idrogeno” del 2002 pensava allo sviluppo di scenari decentrati basati su milioni di celle a combustibile.
La generazione decentrata sta in effetti avvenendo, ma grazie al fotovoltaico e alle batterie.
L’idrogeno torna oggi d’attualità in Europa. Nel mese di luglio 2020 la Commissione ha pubblicato la ”A hydrogen strategy for a climate-neutral Europe” che indica obbiettivi ambiziosi con una chiara priorità per la produzione di idrogeno mediante impianti di elettrolisi dell’acqua alimentati da fonti rinnovabili. La UE si propone di realizzare entro il 2030 impianti per ben 40.000 MW e prevede una potenza analoga nel Nord Africa e in Ucraina. E per segnalare l’urgenza di un cambio di passo, ha fissato anche un target intermedio al 2024 di 6.000 MW in grado di produrre fino a un milione di tonnellate di idrogeno rinnovabile. Si tratta di un salto incredibile, considerando che al momento in tutto il mondo ci sono solo 250 MW di elettrolizzatori. Nel documento UE si ipotizza che nel 2050 circa un quarto dell’elettricità rinnovabile sarà dedicata alla produzione di idrogeno.
In prima fila nell’impegno sull’idrogeno troviamo la Germania che aveva definito a giugno la propria strategia che fissa anche un obiettivo di 5 GW di capacità di elettrolisi domestica per l’idrogeno verde prodotto in Germania entro il 2030 e 10 GW entro il 2040, comprese le capacità di generazione di energia rinnovabile aggiuntive necessarie. Si intende concentrare l’uso dell’idrogeno nell’industria (in particolare nelle industrie siderurgiche e chimiche) e nel trasporto di merci pesanti e si sottolinea come il suo utilizzo debba essere limitato ai settori che sono difficili da decarbonizzare attraverso un uso diretto dell’elettricità.
Anche la Francia è molto interessata a queste nuove opportunità. Engie e Air Liquide vogliono costruire impianti solari in grado di garantire energia a 450.000 persone e anche di produrre idrogeno. Considerando che le industrie francesi utilizzano annualmente 1 milione di tonnellate di idrogeno, il governo vorrebbe che tra il 20% e il 40% fosse generato dalle rinnovabili entro il 2028.
Ovviamente non è solo l’Europa ad essersi lanciata sull’idrogeno. Chi ci ha creduto da più tempo in realtà è il Giappone che ha però seguito una strada poco comprensibile e probabilmente senza futuro. Tokyo sta puntando infatti sulle auto a celle di combustibile, una scelta offuscata dall’impressionante crollo del prezzo delle batterie. La Mirai, prima auto ad idrogeno, venne lanciata nel 2014 ma ad oggi ha venduto solo 10.000 esemplari. Il Giappone però continua a crederci e punta a 800.000 veicoli su strada nel 2030. Un obbiettivo, peraltro, condiviso anche della Corea del Sud. La Cina si sta muovendo diversamente, avendo come obbiettivo la diffusione di un milione di veicoli commerciali, camion e bus, nel 2030.
Ma torniamo all’Europa e cerchiamo di capire il processo di fascinazione suscitato dall’idrogeno degli ultimi mesi. In effetti, si è realizzata una incredibile convergenza di sensibilità ed interessi.
Agli ambientalisti appare suggestiva la possibilità di poter decarbonizzare comparti industriali pesanti, di poter far viaggiare aerei e navi, di poter puntare su sistemi di accumulo stagionali (Power to Gas). In sostanza, l’idrogeno rende più credibile il percorso verso la neutralità climatica. Vi è poi un notevole interesse da parte dei governi e del mondo industriale. L’Europa che si era fatta scippare dall’Asia la produzione di moduli fotovoltaici ed ha visto la corsa cinese sui veicoli elettrici, ha capito la lezione ed ora vuol dire la sua sul trasporto elettrico, sulle batterie e sull’idrogeno. Il mondo delle imprese è molto interessato per le opportunità produttive che si possono dischiudere: costruzione di impianti di elettrolisi e celle a combustibile, soluzioni in grado di intervenire nelle acciaierie, nel comparto chimico e in altri settori produttivi.
Vi è poi una parte del comparto Oil&Gas che vede nell’idrogeno una potente ancora di salvezza in un contesto che vedrà un calo della domanda di questi combustibili. La strategia a cui lavorano alcune multinazionali è basata sulla produzione di idrogeno attraverso il processo di “reforming” di idrocarburi. Questa trasformazione comporta però una elevata produzione di anidride carbonica ed ecco che la soluzione proposta è quella dell’Idrogeno Blu, che prevede la cattura della CO2 e il suo sequestro nel sottosuolo.
Infine, i sostenitori più convinti sono i gestori dei metanodotti. Per loro questa è una carta decisiva e premono per strategie aggressive da parte dei Governi. Ipotizzano una rete che progressivamente possa trasportare idrogeno, sfruttando i collegamenti già esistenti con l’Africa.
Su questi scenari bisogna essere chiari. Le opportunità esistono e vanno colte (pur considerando alcune criticità nel trasporto dell’idrogeno). Ma non si possono inventare utilizzi inesistenti, come l’auto ad idrogeno o la miscelazione di H2 nel metano nelle case.
Per un motivo semplice. Significherebbe rallentare il processo di elettrificazione, che è la strada più efficace e meno costosa per la decarbonizzazione (vale cioè lo stesso ragionamento già fatto per le centrali nucleari).
Quindi, adelante con juicio.
28 Power Transition Trends 2020, BloombergNEF
29 https://www.bloombergquint.com/business/green-power-beatsfossil-fuels-for-first-time-ineurope
32 https://www.carbonbrief.org/analysis-global-coalpower-set-for-record-fallin-2019
34 https://www.equinor.com/en/news/2020-05-13-porttyne-base.html
35 https://cleantechnica.com/2020/06/17/goldmansachs-sees-16-trillioninvestment-in-renewablesby-2030/
36 https://www.evwind.es/2020/02/13/nrel-unveils-15-mw-wind-turbinedeveloped-with-dtu/73570
37 Offshore Wind Outlook 2019, World Energy Outlook special report, Novembre 2019
38 N. Lee et al. “Hybrid floating solar photovoltaicshydropower systems: Benefits and global assessment of technical potential”, Renewable energy, dicembre 2020
39 https://rmi.org/california-should-go-allelectric-in-new-constructionstates-largest-utility-agrees/