Questo contributo fa parte dell’Undicesimo rapporto IO SONO CULTURA realizzato da Fondazione Symbola, Unioncamere e Regione Marche in collaborazione con l’Istituto per il Credito Sportivo.
Realizzato in collaborazione Luca Dal Pozzolo – Fondazione Fitzcarraldo.
La pandemia ha segnato una cesura con il passato agendo da detonatore delle fragilità particolarmente insistenti nel mondo culturale. Sono entrati in crisi i business model fondati sulla dimensione quantitativa dei pubblici e il rischio di invisibilità nel lockdown ha portato a un riversamento delle attività culturali sul web, con risultati differenti tra chi aveva già esperienza e chi si è improvvisato editore digitale. Tra gli effetti positivi, tuttavia, vi è la caduta delle inerzie nei confronti del digitale: oramai è chiaro anche ai più riottosi che il digitale è una dimensione del quotidiano, integrata con il mondo analogico, e che la cultura non fa eccezione. Alcune esperienze digitali, posizionate sia sul confine avanzato dell’innovazione sia nell’uso di strumenti consolidati per prodotti culturali di nuova concezione, mostrano nuove potenzialità nell’allargamento del dialogo con i pubblici e nell’assunzione di responsabilità sociale da parte degli operatori culturali. Di solito i secoli rifuggono il puntiglio di finire allo scoccare dell’ultimo giorno del centesimo anno, ma si attardano ancora per altri dieci o vent’anni: il Settecento finisce con il Congresso di Vienna, l’Ottocento con la Prima Guerra Mondiale ed è molto probabile che in futuro la fine del Novecento possa essere fissata all’inizio della pandemia.
Il Covid-19 ha agito, di fatto, come il detonatore di un sistema di criticità fittamente intessute, quasi il cretto di un dipinto d’epoca, che nel comparto culturale aveva assunto una declinazione particolarmente preoccupante.
La lunga e disastrosa crisi economica dal 2008 in poi, il progressivo ridimensionamento del ruolo dell’ente pubblico nel sostegno ai beni e alle attività culturali con il contemporaneo appello neoliberista – ammantato da toni quasi etici – all’assunzione di logiche aziendali e al reperimento delle risorse sul mercato attraverso l’aumento asintotico di tutti i pubblici, la progressiva fragilità dei business model, i contemporanei impatti negativi dell’overtourism: erano già tutti sintomi ampiamente manifesti di una situazione di crescente insostenibilità.
Se nonostante le difficoltà in aumento, persisteva fino ai primi due mesi del 2020 la speranza di una ripresa, di un possibile recupero di una situazione ex ante, il lockdown ha marcato una cesura irrimediabile, il blocco di tutte le attività, la serrata completa.
Private da un momento all’altro del rapporto con il pubblico in presenza, le istituzioni culturali hanno rovesciato le loro attenzioni sul web come unica alternativa possibile all’improvvisa invisibilità: musei e strutture, che fino a un attimo prima facevano della loro distanza dalla rete e dai social un punto d’orgoglio, si sono affrettate ad aprire profili Instagram, Facebook, a scendere nell’arena di Tik-Tok, con risultati del tutto differenziati, com’era prevedibile.
Le istituzioni presenti da tempo nel mondo digitale e sui social, grazie ad investimenti tesi a produrre contenuti digitali rilevanti, hanno mostrato fin da subito un distacco qualitativo abissale dalle molte pratiche improvvisate pur di garantire la presenza sui social a tutti i costi, dall’accumulo di materiale digitale non adatto ai format e ai linguaggi della rete, dalle visite guidate frutto di un bricolage frettoloso, dalla trasposizione meccanica e ingenua di logiche e prodotti analogici in formato digitale.
Tuttavia, nel chiaroscuro di esperienze di qualità e improvvisazioni, si è registrato un effetto largamente positivo: le diffidenze, le distanze, le capziose distinzioni metodologiche, le prevenzioni ideologiche e le pigrizie supponenti rispetto al digitale sono state in larga parte spazzate via dalla ruvida urgenza degli eventi.
È evidente, oramai, persino ai riottosi più tenaci, che il digitale non è una concessione populista a giovanotti affetti da ludopatia da videogame, ma è semplicemente una dimensione inevitabile del contemporaneo.
Non esistono due mondi, uno digitale e uno analogico-fisico, divisi da una qualche barriera; noi stessi, nel nostro quotidiano – che lo avvertiamo consapevolmente o meno – abitiamo una dimensione ibrida sempre più inestricabile, popolata di stimoli, visioni, conversazioni, oggetti digitali, tanto quanto attraversiamo luoghi fisici e reagiamo agli stimoli corporei.
Camminare oggi non è l’esperienza romantica di Wordsworth nel Lake District che componeva mandando a memoria i versi al ritmo del passo e del respiro. Il nostro camminare è pavimentato dalle notizie che ci arrivano dallo smartphone, dai whatsapp, da una connessione costante che infiggerà i diversi accadimenti di un altrove senza confini nella memoria di questo luogo fisico e singolare, pur sempre esperito anche attraverso la nostra capacità motoria e i sensi accesi.
Se, dunque, ci scopriamo tutti digitali, a costo di soprassedere alla penosa inadeguatezza della rete nel sostenere in modo omogeneo questa migrazione in tutto il Paese, e senza trascurare un 30% della popolazione che soffre di un digital divide particolarmente preoccupante (soprattutto per le fasce in età scolastica), occorrerà ammettere che essere digitali non è di per sé un’innovazione e che spesso parliamo di nuove tecnologie intendendo strumenti e device in uso da decine di anni. Utilizzare intensivamente il digitale e i social, passare il proprio tempo di lavoro su Zoom, non sono certo un segnale di innovazione, ma solo l’abbattimento di barriere di pigrizia digitale, imposte dalla nuova situazione di lockdown.
Per contro, la capacità delle istituzioni culturali di trasformarsi in editori di contenuti digitali di alto profilo può rappresentare una significativa innovazione, anche se gli strumenti tecnologici utilizzati sono correnti e non particolarmente rivoluzionari. È il caso della messa on line della Digital Concert Hall dei Berliner Philarmoniker attraverso l’abbonamento annuale a poco meno di 150 €.
Non solo la visione in diretta della stagione in corso, ma l’accesso a uno sterminato archivio di concerti, interviste ai protagonisti, registrazioni dietro le quinte, eventi diversi. Da Karajan a Kirill Petrenko, il grande investimento – storico in questo caso – della registrazione audio e video in alta qualità di decenni di attività, ha consentito all’esordio del lockdown di lanciare sul mercato una promozione con l’offerta di un mese gratis per tutti i servizi, da confermare successivamente con l’abbonamento personale. È l’investimento lungo decenni nella costruzione di un archivio unico al mondo che consente – a tecnologie largamente diffuse – di mettere a disposizione un prodotto digitale, editato e pensato anche per supplire a una situazione largamente imprevista. Similmente, nel periodo di lockdown, la Royal Opera House di Londra ha messo sotto pressione i suoi esperti per produrre in un tempo ristrettissimo attività educative per le scuole, dirette a insegnanti e famiglie, perché condividessero con i bambini l’esperienza dell’opera e del balletto, sperimentando in modo interattivo la costruzione degli spettacoli, il dietro le quinte, i punti di vista dal mezzo della scena, tutte esperienze impossibili per gli spettatori in presenza alla performance. Anche in questo, tecnologie di alto profilo, pienamente disponibili, al servizio di un prodotto editoriale fortemente strutturato per ovviare alla caduta del dialogo con il pubblico dei più giovani.
Tutto ciò non toglie che l’innovazione possa passare per l’uso proprio e spettacolare di tecnologie avanzate: il 21 giugno 2021 il celebre musicista francese Alfred Jarre ha realizzato Alone Together, una performance dal vivo in realtà virtuale, trasmessa simultaneamente in tempo reale attraverso piattaforme digitali, in 3D e 2D. Oltre alla trasmissione digitale, una trasmissione “silenziosa” del concerto virtuale è stata offerta nel centro della città di Parigi, nel cortile del Palais Royal a una selezione di studenti delle scuole di arti dello spettacolo, che hanno portato solo il loro telefono cellulare e le cuffie per condividere la performance dal vivo su un grande schermo. Alla fine i partecipanti riuniti nel cortile del Palais Royal hanno chattato in diretta con l’avatar di Jean-Michel Jarre, rimuovendo distinzioni tra il mondo fisico e quello virtuale. Per concludere, l’avatar ha aperto una porta virtuale del backstage in cui Jarre ha accolto il gruppo di studenti in persona nel suo studio per condividere il dietro le quinte della serata. Qui le dimensioni del virtuale e del fisico vengono attraversate continuamente in entrambe le direzioni a dimostrare, se ce ne fosse bisogno, di come si abiti un solo mondo, sintetizzato e ordinato dalla nostra stessa capacità e intelligenza percettiva.
Prodotti culturali innovativi, tuttavia, sono pensabili anche su scale dimensionali molto diverse, al limite dell’intimistico, come nel caso del gruppo teatrale tedesco Rimini Protokoll, che ha registrato una traccia sonora espressamente orientata al periodo di clausura in casa, imposto dal lockdown. L’ascolto, suddiviso in nove movimenti, guida l’utente attraverso semplici esercizi fisici a conquistare una diversa consapevolezza degli spazi della propria abitazione, proponendosi come una guida esperta in fenomenologia della percezione, mediante la quale rivelare le molteplici dimensioni spaziali ed emotive che l’abituale familiarità distratta tende a sotterrare nel nostro quotidiano.
Non certo meno attivi sono stati alcuni musei nell’inventare nuove occasioni per tenere aperto il canale di comunicazione con il proprio pubblico. Il Museo della Scienza Leonardo da Vinci di Milano, ad esempio, durante il lockdown ha reso disponibili su Facebook, Instagram, Youtube 150 Storie a porte chiuse, con un palinsesto settimanale dedicato a differenti tematiche scientifiche, dalla sostenibilità ambientale alle ricerche sul Covid, alle opere ingegneristiche di Leonardo. La GAMeC, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo, dall’epicentro della crisi pandemica, per continuare a parlare con il proprio pubblico ha dato vita a Radio Gamec, un dialogo su arte, letteratura, società, ma anche cronaca, particolarmente drammatica in città, con una scansione di oltre 60 puntate, riconosciuta dall’UNESCO come una delle migliori iniziative museali al mondo nel periodo del primo lockdown.
I laboratori dell’elaborazione del dolore e memoria generativa organizzati successivamente attorno al tema del lutto, dal titolo evocativo, Non recidere, forbici, quel volto, hanno rimesso al centro dell’attenzione la necessità di elaborare il dramma collettivamente anche all’interno del museo, per costruire strade di ripresa consapevoli e non lastricate da basolati di rimozione.
Nell’ambito degli strumenti per organizzare la domanda e la fruizione di beni culturali di dimensioni limitate, tali da non poter sostenere il costo di personale fisso per l’accoglienza, il progetto Revelia, ideato dalla piemontese Kalatà prima della pandemia, vive in questo momento una piena applicazione, ritrovando una forte coerenza con le nuove sensibilità che caratterizzano la fruizione in periodo post pandemico.
La costruzione di una piattaforma informatica che consente le prenotazioni delle visite ai beni culturali allestiti in spazi chiusi, secondo le disponibilità orarie fornite da guide residenti in loco (formate e responsabilizzate per l’accoglienza locale), consente di concentrare la domanda – altrimenti troppo rarefatta – in piccoli gruppi, per visite approfondite di esplorazione dei territori. Ai proprietari dei beni e agli enti locali si richiede di aderire all’offerta e associarsi alla piattaforma. Il successo della prima fase di attuazione motiva l’apertura attuale a partnership in corso di definizione con diverse Regioni, dal Piemonte alla Liguria al Lazio.
Le iniziative e le attività sopra citate sono paradigmatiche di un cambio di atteggiamento di molte istituzioni e organizzazioni di diverso profilo, genere e dimensione, ma hanno in comune l’allargamento delle modalità di comunicazione che non rappresenta solo un fatto tecnico di integrazione con il digitale, ma corrisponde all’uso di infrastrutture e piattaforme che rendono possibile una diversa responsabilità sociale dei produttori di cultura nei confronti dei propri pubblici.
La pandemia, con la sua dolorosa pressione su tutti gli aspetti del quotidiano, ha contribuito a rendere irrilevanti barriere e steccati fino a poco tempo prima apparentemente insuperabili e ha posto l’urgenza per molti produttori di cultura di entrare con più coraggio e pienezza nella vita dei propri utenti, tenendo in conto la multidimensionalità intellettuale, fisica ed emotiva delle persone, da intercettare con tutti gli strumenti a disposizione, ben oltre ai confini della propria specializzazione disciplinare e produttiva. Si può sperare, in questa prospettiva, che la pressione della pandemia sulle nostre vite, pur così drammatica, porti in dote tra i pochi elementi positivi l’innesco di una diversa modalità di integrazione della cultura nel corpo sociale e un dialogo tra persone a tutto tondo, non solo tra produttori-distributori e consumatori di cultura.