E’ un difficile esercizio elencare gli ingredienti che compongono il Made in Italy, quella composizione chimica inafferrabile che ha prodotto prima il triangolo industriale e poi i loo e più distretti manifatturieri del nostro Paese. Un insieme di componenti che vale il 70 posto in termini di reputazione tra i consumatori mondiali e quasi il zio% delle esportazioni italiane. Una irresistibile onda d’urto che è divenuta negli ultimi due secoli una vera forma di soft power. Ed è evidente che la radice di tutto ciò risieda nel “bello” e nel “ben fatto”, che poi simbolizzano la straordinaria varietà della geografia e della cultura della nostra penisola. Se infatti si esaminano i comportamenti degli operatori economici nel nostro Paese non è difficile scorgere in essi la straordinaria disponibilità degli Italiani al servizio dell’altro, la loro connaturata curiosità e capacità di perfezionare con l’innovazione le formule consolidate, la loro tensione alla ricerca, alla domanda, al dubbio, alla riflessione che trovano anche nella vasta cultura italica la propria universale bandiera. È un po’ come se, approfondendo l’imprenditoria italiana, si riuscisse a scoprire come il genius loci italico riesca a temperare il tecnologismo della globalizzazione con il nuovo .umanesimo della buona cucina, dell’eleganza e dell’arte, cioè con i tratti caratterizzanti lo Stivale quali il gusto, lo stile di vita e la creatività. L’ultimo documento di Fondazione Symbola e Unioncamere relativo all’anno concluso «Io sono Cultura 2022» ci convince che la crisi e l’indebolimento provocato dalla pandemia sono stati vinti dalla qualità e dalla bellezza. Da quello spirito che collega il quarto capitalismo con le tradizioni secolari dei territori. Storie che intrecciano le dinamiche economiche con quell’uomo artigiano, fenomeno antropologico della nostra competitività e protagonista più o meno consapevole dei successi del modello di sviluppo italiano. Stiamo parlando di quella esperienza degli avi di bottega di epoca medievale (o addirittura precedente) , dove la fertilizzazione incrociata tra credenze, abilità manifatturiera, estetica, rispetto delle persone e dell’ambiente hanno edificato l’eredità storica e accumulato i frutti della vita d’oggigiorno. Stiamo parlando di quelle generazioni di abitanti locali che dal XII al XV secolo ha sviluppato la grandiosa epoca spesso ignorata dalla maggior parte della storia economica italiana (per non parlare degli intellettuali) e che è la chiave di volta per comprendere molti aspetti nascosti della società post-industriale contemporanea. Un passato che non può e non deve essere dimenticato, perché risulta impossibile oggi illustrare il Made in Italy senza tornare indietro a indagare l’orgoglio tipico dell’artigiano, che cerca di realizzare un prodotto di eccellente livello per propria intima soddisfazione, per la fierezza del saper fare e di essere artefice, per la voglia di creare più per amore che per denaro. La ricerca di Symbola e Unioncamere ci testimonia come l’investimento in cultura ripaghi in termini di ricaduta economica e di impatto sociale sul territorio (si moltiplicano gli indotti di accoglienza e di intrattenimento, si aprono nuove attività, si fertilizzano nuovi lavori,e così via). E tutto ciò consente l’integrazione tra le forze pubbliche e gli investimenti privati, superando la dicotomia tra pubblico e privato, che per tanto tempo ha caratterizzato l’impasse culturale della nostra nazione. Nonostante le difficoltà dei due anni che ci portiamo alle spalle, la filiera culturale e creativa si rivela fondamentale nello sviluppo del capitale umano e del contesto ambientale, con 88,6 miliardi di valore aggiunto e1,460 milioni di occupati. Valori che, rispettivamente, incidono per il 5,6% e il 5,8% di quanto complessivamente viene espresso dall’intera economia italiana. Con una capacità moltiplicativa pari a 1,8 (per un euro prodotto se ne generano 1,8 nel resto dell’economia) che sale a 2 per il patrimonio storico artistico e a 2,2 per le industrie creative. Senza cultura non solo non si mangia, ma verremmo mangiati dagli altri Paesi, perché essa è il principale propellente del nostro modello imprenditoriale (e non solo nei settori canonici che vengono costantemente ricordati come la moda e il design, ma anche in tanti altri che riguardano prodotti e servizi magari più standardizzati). Quando gli stranieri sempre più ammirati per la marca “Italia” che noi diamo per scontata quando addirittura non la sottovalutiamo ci chiedono di spiegare il nostro modo di lavorare e quali siano gli input che consentono -contrariamente alle leggi canoniche della fisica il “volo del calabrone” e di diventare il quinto paese del mondo, la risposta ormai deve essere obbligata: le principali determinanti sono le componenti immateriali difficilmente narrabili ma collegate agli investimenti nelle Arti e nella Cultura. Connessioni che alimentano le competenze distintive che sono alla base del nostro continuo miracolo economico. Correlazioni che sospingono il posizionamento dei prodotti all’interno di nicchie di alta qualità e di alta gamma, spesso coincidenti con la fascia del mercato di lusso, che implica una progettazione con forte valenza estetica. Una capacità quindi tutta originale di creare spazi competitivi potenzialmente “non-finiti”, inventando soluzioni e prodotti sempre nuovi e originali. Un “saper fare” che pochi altri Paesi sanno attivare e che rende le nostre manifatture flessibili, dinamiche e, soprattutto, interessanti agli occhi di quella crescente popolazione che cerca storia e cultura incorporata nei beni che acquista.