La crisi pandemica globale è stata uno spartiacque importante per le economie e le società di tutto il mondo, e lo è stata in particolare modo per il mondo della produzione culturale e creativa. Ci sono almeno due ragioni che spiegano perché la pandemia ha colpito in modo particolarmente duro questo mondo: da un lato la convinzione diffusa che le attività culturali e creative facciano parte del ‘superfluo’ e quindi siano sacrificabili, sia dal punto di vista dell’allocazione delle risorse pubbliche che della spesa privata, nei momenti di maggiore crisi e bisogno; dall’altro perché le modalità di fruizione più diffuse, almeno nel mondo pre-pandemico, avvenivano nello spazio pubblico e comunque in situazioni di elevata densità di presenza e scambio sociale: musei, teatri, sale da concerto e cinematografiche, discoteche, biblioteche, per fare qualche esempio ovvio. Eppure, la pandemia è stata anche una grande occasione per scoprire quanto la cultura sia indispensabile alla nostra salute mentale: la permanenza forzata all’interno delle case ha spinto molte persone ad aumentare notevolmente la propria fruizione di contenuti culturali su piattaforma digitale: musica, film e serie televisive, videogiochi, social media. Ora che la pandemia, per quanto non completamente superata, sembra sotto controllo, è possibile ipotizzare un ritorno al passato? La dodicesima edizione del rapporto «Io sono Cultura», promossa da Fondazione Symbola e Unioncamere, ci dà alcune risposte per quanto riguarda l’Italia, e il quadro sintetico che emerge è chiaro. Se da un lato i settori culturali e creativi hanno saputo rispondere con vivacità e spirito di iniziativa alla crisi, il percorso di recupero dei fondamentali economici pre-pandemici è ancora lungo e complesso. I più colpiti sono, comprensibilmente, i settori che più dipendono dalla presenza fisica in loco dei fruitori, in particolare lo spettacolo dal vivo e i musei e i siti di patrimonio storico-artistico. I dati del biennio pandemico parlano chiaro: una perdita del 21,9% e dell’ii,8% del valore aggiunto prodotto nello spettacolo e nei musei e patrimonio, rispettivamente. D’altra parte, come ci si può aspettare, la domanda di contenuti culturali su piattaforma digitale è invece al contrario aumentata, con una crescita complessiva del 7,6% del settore dei videogiochi e del software. Va però osservato come, malgrado il dato positivo, l’industria italiana in questo settore sia ancora lontana dai risultati dei leader mondiali, limitandosi ad una produzione di nicchia. Ci sono quindi margini di crescita importanti che richiederebbero strategie di sviluppo e scelte di investimento che al momento mancano. La grande opportunità non colta per un Paese come il nostro è quella del rapporto tra cultura digitale e patrimonio storico-artistico, un ambito in cui potremmo essere leader di innovazione a livello globale. Alcuni settori come quello cinematografico sono invece una espressione di una complessa transizione che si apre a molte possibilità. Se dal punto di vista produttivo il cinema ha dimostrato una vitalità persino sorprendente, con una crescente internazionalizzazione del settore che si ripercuote positivamente anche in termini occupazionali, nella distribuzione si sconta l’effetto post-pandemico di disaffezione del pubblico per la fruizione in sala, così che l’abbondanza di titoli prodotti di fatto rende difficile non solo l’arrivo in sala ma anche e soprattutto il raggiungimento di livelli di pubblico accettabili. Il canale distributivo prevalente sta quindi diventando l’uscita diretta in streaming sulle principali piattaforme: una soluzione inevitabile ma non particolarmente favorevole per il nostro sistema produttivo dal punto di vista del potere negoziale e della redditività. Una dinamica simile si osserva anche in altri settori come la musica e l’audiovisivo, che in via di principio dovrebbero essere meno colpiti dalla crisi (se si esclude l’importante comparto della musica dal vivo), e che invece soffrono a propria volta una contrazione dell’ii,6 per cento. I dati che ci offre il rapporto indicano con estrema chiarezza la necessità di una strategia di politica culturale più incisiva e mirata. Abbiamo l’ennesima conferma che i settori culturali e creativi sono una componente di primaria importanza dell’economia del nostro Paese: valgono i15,6% del valore aggiunto complessivo, che se sommato al valore prodotto nei settori collegati del turismo, dei trasporti e della manifattura, sale al 15,8 per cento. Ma nel contesto post-pandemico in cui la produzione e la fruizione dei contenuti culturali e creativi stanno conoscendo una evoluzione rapida e molto complessa, per sostenere questi settori non basta cercare di ripristinare la situazione preesistente. Quel che occorre è una rapida accelerazione negli investimenti strategici, nello sviluppo e nel trasferimento tecnologico, nella sperimentazione di nuovi formati e di nuovi canali di distribuzione, e in una maggiore capacità di presidio di quelli esistenti. Non sappiamo ancora se e come la più volte annunciata rivoluzione del Web3, con la rapida escalation del metaverso e della blockchain anche negli ambiti culturali, avverrà davvero. Ma è evidente che il futuro di questi settori, qualche che sia, sarà molto diverso dal passato, e non fare i conti con questo cambiamento rischia di mettere in ginocchio parti importanti del nostro ecosistema culturale. È urgente, e indispensabile, pensare a politiche culturali diverse, anche con il supporto delle notevoli risorse che l’Europa mette oggi a nostra disposizione a questo scopo: dai fondi di coesione, ai programmi come Horizon Europe e Creative Europe, all’appena nata Knowledge and Innovation Community (KIC) per la cultura e la creatività.