È necessario lavorare per “un capitalismo più gentile”, sostiene Katia Da Ros, imprenditrice veneta (la sua azienda, Irinox, produce apparecchiature high tech per il freddo per l’industria alimentare) e vicepresidente di Confindustria per la sostenibilità e la cultura. Un sistema economico, cioè, fondato su una serie di valori (la sostenibilità ambientale e sociale, l’attenzione per le persone, la qualità della vita, la sicurezza sul lavoro) cui ispirare prodotti, servizi, mercati, consumi e il cui rispetto consente di costruire, anche nel lungo periodo, quel valore economico (profitti, rendimenti finanziari in Borsa, etc.) che stimola l’azienda a crescere, investire, creare lavoro e benessere diffuso.
L’uso della parola “gentilezza” nel contesto dell’economia e dell’attività d’impresa non è poi così tanto usuale (dieci anni fa pronunciarla sarebbe stato addirittura inconcepibile). Rivela però una tendenza di fondo che trova spazio crescente non solo in imprese innovative e sensibili ai temi della sostenibilità, ma anche nelle associazioni di categoria e in ambienti sociali e culturali che lavorano sui valori e i contenuti della buona cultura d’impresa.
Una serie di testimonianze importanti arrivano anche dalla rilettura e dal rilancio del “Manifesto di Assisi” per “una economia a misura d’uomo”, promossa lunedì mattina alla Luiss da Symbola e dai francescani di Assisi. Appunto i promotori, nel gennaio 2020, di quel documento, rapidamente sottoscritto da grandi associazioni (Unioncamere, Confindustria, Coldiretti) ma anche, nel corso del tempo. da una lunga serie di imprese grandi (Enel, Novamont, Arvedi, Illy, etc.).
Il senso di fondo è chiaro: le scelte di sostenibilità, la cultura, l’orientamento a un “capitalismo più gentile” consentono, proprio alle imprese italiane, di affrontare la crisi in corso facendo fronte, naturalmente, alle emergenze, ma anche e soprattutto alzando lo sguardo ampio verso l’orizzonte e facendo di quelle scelte, ragioni prodonde di competitività, di affermazione su mercati sempre più difficili, competitivi, esigenti.
Viviamo, appunto, momenti drammatici, di crisi e incertezza, tra venti di guerra, shock energetici, inflazione e recessione, con pesanti ricadute su sicurezza, lavoro, redditi e prospettive di sviluppo. Le imprese stanno ridiscutendo, sotto stress, progetti di investimento e relazioni commerciali. E proprio in un contesto così difficile è necessario qualificarsi in modo chiaro e forte nelle nicchie globali a maggior valore aggiunto.
I nostri valori distintivi sono l’originale “cultura politecnica” come sintesi di saperi umanistici e conoscenze scientifiche e tecnologiche, una storia orientata al futuro, una robusta tendenza alla qualità. Le scelte di sostenibilità ne sono componenti essenziali. Ma anche la cultura d’impresa, attraverso i musei e gli archivi storici, come leve strategiche per navigare nella crisi e costruire progetti di crescita. La loro valorizzazione, infatti, incide positivamente su brand, orgoglio identitario dei dipendenti, attività di marketing e comunicazione, relazioni con i mercati. E, più in generale, rafforza appunto il prestigio del “made in Italy” nel mondo.
Ecco dunque il senso dell’investimento sul gusto per la bellezza e la qualità. Il miglior design, nella sua accezione più ampia e complessa, si lega all’innovazione tecnologica, rafforzando così la meccatronica e la robotica, l’automotive e la chimica, l’industria aerospaziale e la nautica, oltre che, naturalmente, i settori tradizionali del made in Italy (arredo, abbigliamento, agroindustria).
È un “saper fare” ma anche un “fare bene, e fare del bene” che ha radici profonde nella sapienza dei territori produttivi e che si raccorda con scienza e ricerca dei Politecnici e delle migliori università italiane. E che, in tempi recenti, mostra di saper vivere con intraprendenza la twin transition, ambientale e digitale, economica e sociale, stimolando le capacità concorrenziali delle imprese.
Ecco, dunque, la convergenza tra una serie di riflessioni che animano, proprio in tempi di incertezza e di crisi, il discorso pubblico nel mondo dell’impresa e nei centri in cui si incrociano cultura, formazione, ricerca. Il “capitalismo gentile”, appunto. “L’impresa riformista” che fa da asse di una riscrittura critica delle mappe della produzione e dei servizi in smart cities che diventano smart lands, cioè territori produttivi densi di innovazione e capitale sociale positivo. E l’economia giusta “a misura d’uomo” o, per dirla ancora meglio, “a misura della persona e della comunità”, valorizzando l’attualità dell’esperienza di Adriano Olivetti (come suggerisce anche lo stimolante libro di Paolo Bricco su “un italiano del Novecento”, edito da Rizzoli).
Sono soprattutto le nuove generazioni a spingere in questa direzione, come consumatori, ma anche come imprenditori, produttori, soggetti consapevoli e responsabili delle attività economiche, scegliendo prodotti e servizi e privilegiando, come luoghi di lavoro, le imprese che condividono concretamente i sistemi di valore della sostenibilità (e punendo, con intelligenza critica, chi si limita a fare green washing).
Si recuperà, così, anche una sapienza antica, che affonda le sue radici nella cultura medioevale delle abbazie benedettine (la lezione dell’ora et labora), nel gusto per la bellezza nelle città dei mercanti, banchieri e manifattori come Siena e Firenze, nelle relazioni tra frati francescani e banchieri sul valore delle cose e i “beni comuni”, analizzate da grandi economisti di area cattolica come Stefano Zamagni e Luigino Bruni (il suo ultimo libro, “Capitalismo meridiano – Alle radici dello spirito mercantile tra religione e profitto”, edito da Il Mulino, ne offre testimonianze di grande interesse). Con una indicazione essenziale: “L’economia europea è nata da uno spirito più grande dello spirito delle merci, e se perde questo spirito eccedente rischia seriamente di spegnersi”. Eccola, una nuova misura possibile. Su cui continuare, con “gentilezza”, a discutere.